racconti |
Aveva
cominciato a fotografare perchè non aveva una lira in tasca e doveva inventarsi
un mestiere. Pan era un tipo piccolo, dalla barba biondo-rossa e con
un’altrettanto rossa “voglia” tra la base del collo e la clavicola.
Bilioso, sempre incazzato con il mondo, ad un certo punto aveva detto
arrivederci al partito, da cui percepiva uno stipendio da funzionario, per
questioni di principio, di etica e di chissà quali altre dimenticate ragioni.
Se
ne era andato sei mesi a Parigi, tanto per voltare pagina e rigenerare la mente
e i pensieri. Ma certo era stato tanto tempo prima, tanto tempo prima di
conoscere lei, Croselin.
In
realtà si fotografa sempre la stessa immagine – le disse dandole da leggere
“La camera chiara” di Roland Barthes , “ciò che la fotografia riproduce
all’infinito ha avuto luogo solo una volta; essa ripete meccanicamente ciò
che non potrà mai ripetersi esistenzialmente”.
Non
fu certa di aver capito, ma lui le incorniciò una fotografia scattata durante
una gita in montagna con amici, uno scorcio di roccia grigio e cupo da cui
spuntavano, da una spaccatura, piccoli fiori lilla. Non era una fotografia che
le piacesse particolarmente, ma il gesto sì, le procurò piacere come se il
fotografo, che questo era il mestiere di Pan, le avesse detto – Bella
fotografia!- Cosa che si astenne dal fare, quel giorno e per gli anni a venire.
Presero
a vedersi con assiduità definendosi fidanzati come due giovani adolescenti al
primo amore anche se di età erano entrambi prossimi ai quaranta. A Pan piaceva
questa definizione un po’ desueta, perchè oltre che bilioso, era un po’
eccentrico, un tipo strano, estate e inverno vestito di jans e camicia, la barba
un po’ incolta e gli occhiali tondi da intellettuale. Nella foga dell’amore
la trascinò nel piccolo bagno attrezzato da laboratorio di sviluppo per
immagini in bianco e nero della sua altrettanto piccola casa di scapolo. Il
bianco e nero era come un culto, una religione di cui talvolta tentava di
spiegarle i riti mostrandole le immagini di
fotografi che hanno fatto la storia della fotografia, gliene indicava i
particolari sfogliando i volumi di Cartier Bresson, lo sguardo del secolo, lo
scatto che coglie la realtà o le immagini di Doisneau, le persone qualunque
nelle strade, i vicoli e i bambini di una Parigi di un tempo passato.
Se
ne andarono come per un tacito viaggio di nozze, parola tra loro assolutamente
vietata, a pochi chilometri dalla città, a pernottare a
Roccaverano, girovagando per le Langhe. Un pomeriggio nel loro
girovagare, incontrarono una “folla” di gatti, quindici, venti, sulla porta
di una vecchia trattoria. Se ne
stavano tranquillamente distesi al sole sulla strada poco trafficata ad oziare o
intenti a slappare da grosse scodelle gli avanzi che qualcuno aveva sistemato
per loro. Ne venne una foto da far ingradire e mettere nella casa che
affittarono insieme. Pan per la prima volta, derogò al culto sacro del bianco e
nero, che lo teneva impegnato un paio di pomeriggi la settimana chiuso nel bagno
del garage della nuova casa, per il piacere dei rossi maculati e dei grigi
striati delle pellicce dei gatti ospiti, fuori della porta, della trattoria di
una piccola e spersa frazione delle Langhe.
Comprò
una macchina usata Pentax che mise nel cassetto del mobile basso, nell’angolo
che si era ricavato nel saloncino del nuovo appartamento. Era tacitamente per
lei. Per lei Croselin! Gliela affidò un giorno per una gita in montagna, al
tempo dell’amore. Un ferragosto assolato presero la via di Jovenceau, sopra
Sauze d’Oulx dove una amica di Croselin li aveva invitati. S’inoltrarono nei
boschi ombrosi dietro la casa di Lorilla, dove l’odore
dei pini
era più forte. Croselin
catturò il
cielo della
sua
nuova felicità sdraiandosi sul tappeto d’erba e schiacciando l’otturatore
rivolta alla cima degli alberi. Il cielo filtrava tra i rami in coni di luce
brillanti creando una suggestiva sensazione di magico e irreale, forse di un
inesistente bosco di gnomi e fatine o
semplicemente così sembrava a lei, Croselin, guardando la fotografia che ne
venne, abbacinata dal suo amore per Pan.
Fu
il tempo dei volumi fotografici che Pan comprava e portava a casa, delle
immagini di Salgado, uomini e donne che si trascinano sacchi di sabbia
pesantissimi per l’estrazione dell’oro, della denuncia del lavoro
minorile scattate con la mitica Leica.
Anche
Pan si comprò una Leica. Ne era
fiero, la mostrava ad amici e conoscenti come un oggetto prezioso
che finalmente era riuscito a comperarsi, ne elogiava la qualità delle
lenti, la compostezza esteriore, la maneggiabilità. E sembrava metterci ancora
più impegno in camera oscura, quasi a dimostrare che con la Leica si potevano
ottenere foto splendide e uniche. Forse in parte era proprio così, o forse era
un momento particolare, poichè oltre al reporter per il giornale locale e
l’attività a partita IVA per uno studio cittadino, lo chiamavano clienti
privati per qualche servizio pubblicitario o a documentare festival estivi di
teatro e di musica. Talvolta Croselin lo seguiva, per il piacere di uscire di
casa insieme a lui. Si accomodava nelle prime file solitaria e oltre al vero
spettacolo si godeva lo spettacolo di Pan naturalmente “preso” dalla scena,
dalla luce, dall’inquadratura e dagli scatti. Le si avvicinava a fine
spettacolo, semprechè un qualche conoscente, un altro fotografo non lo
trattenesse a disquisire di bianco e nero, di obiettivi, di mostre, di lavori.
Croselin se ne stava quieta ad aspettare per non parere una di quelle donnette
invadenti ed impazienti tutte centrate su se stesse.
Talvolta
lo aiutava a comporre un set per fotografare due bottiglie
di vino o una serie di barattoli di intingoli vari commissionati da una qualche
piccola cantina locale o da un agriturismo alle
prime armi.
Abbassa
le tapparelle, c’è troppa luce sulle etichette – smorfiava Pan con quel suo
fare un po’ incazzato che sempre lo prendeva di fronte
a un compito impegnativo. Croselin si era fatta l’idea che occorresse
star zitta, lasciarlo sfogare, perchè lui Pan sapeva il fatto suo, era geniale.
Lo lasciava fare in quei suoi scazzi un po’ isterici mentre predisponevano la
scena: spingevano il vecchio tavolo tarlato, recuperato anni prima sul solaio di
una cascina, contro l’enorme libreria stracolma, oltre che di volumi
fotografici, di centinaia di romanzi. Pan riusciva a modellare l’immancabile
telo nero tra la libreria e il tavolo. Arricchiva il fondale nero di teli di
lino, pezzi di biancheria della nonna, foglie, cortecce, libri, altri oggetti,
per creare atmosfere e contrasti a seconda della necessità e cominciava a
scattare: da vicino, da più lontano, cambiando obiettivo, tirando un po’ più
su le tapparelle, tornando ad abbassarle e così via.
Si rilassava solo, qualche giorno dopo, a riemersione dalla camera oscura
e forse neppure: si rilassava veramente quando poteva mostrarle le foto oramai
asciutte. - Sono stupende! Guarda
questo particolare, è incredibile come sia riuscito perfettamente
– commentava Croselin se si
trattava di un vasetto o di un panetto di formaggio.
Guarda
l’espressione di questo personaggio! – se invece erano foto di scena.
Le
foto di teatro non sono facili – cominciava Pan – occorre cogliere
l’attimo, fare attenzione alle luci di scena che si riflettono sui volti e
cogliere i momenti clou della rappresentazione. Diversamente
si portano
a casa
immagini che
non
sono
significative, che non dicono niente… - continuava Pan lanciandosi in
confronti con altri fotografi locali che tutti, a parer suo, difettavano di
qualcosa o per un verso o per un altro. - Molti, quasi tutti sanno inquadrare,
ma non stampare. E’ intollerabile, è come essere fotografi a metà. Non certo
dei professionisti. Troppo semplice fare un click ! E’ nella camera oscura, in
quella gamma di bianchi e grigi e neri da far emergere nel modo giusto,
per dare profondità all’immagine, che si misura la capacità di un
vero fotografo! – s’infervorava Pan e sembrava quasi che se la prendesse con
il mondo intero che non capiva e non sapeva.
Croselin
assentiva e gli faceva eco rassicurandolo.
In
realtà non le importava molto: essendo per natura un po’ imbranata, trovava
difficoltoso anche solo cambiare il rullino alla Pentax quando d’estate se ne
andavano un po’ in giro a scattare fotografie. Pan le spiegò un paio di volte
come fare, ma lei era veramente un po’ imbranata, insicura e pasticciona!
Mi
controlli che l’abbia inserito bene? Non ne sono sicura. – mielava Croselin
Pan
le prendeva, senza dire una parola, la macchina di mano e controllava
l’inserimento del nuovo rullino.
Croselin
lo guardava di sottecchi e riconosceva i piccoli segnali di impazienza che a
volte lo coglievano: un gesto solo poco più brusco, un alzare di sopracciglia,
un “muso” tenuto per qualche tempo. Ma Croselin non ci “badava” più di
tanto, lui era troppo geniale per poterlo disturbare con questioni banali,
piccoli appunti di donnetta centrata su se stessa.
Intanto
il mondo avanzava e sempre più si parlava di digitale. Lo studio dove Pan
lavorava a partita IVA cambiò le vecchie machine analogiche in nuove reflex
digitali. Pan ne era assolutamente
contrario e non mancava occasione di criticare il nuovo indirizzo dello studio.
Ma, anche se a malincuore, ad un certo punto fu costretto all’acquisto di un
nuovo corpo macchina e relativi obiettivi per poter stare dentro alla storia e
nel mercato del lavoro, che nonostante i suoi convincimenti, totalmente andava
trasformandosi.
Dismise
progressivamente la camera oscura dimenticandoci dentro, penzolanti da un
vecchio appendiabiti di legno, decine
di pellicole che sicuramente avrebbe prima o poi ritirato, messo ad archivio
negli album appositi che gironzolavano per casa e invadevano un intero scaffale
dello studio.
Croselin
provò una sorta di leggero piacere al pensiero di un Pan non più inghiottito
nella camera oscura per ore e ore della domenica pomeriggio, quando sviluppava e
stampava per il giornale locale, ma naturalmente tenne per sè le proprie
insignificanti considerazioni di donnetta per non appesantirgli la vita e la
genialità.
L’attività
di Pan cambiò effettivamente. Si chiuse sempre più di fronte al grande
computer, che già possedeva, organizzandosi una nuova vita che prevedeva
l’intera mattinata davanti allo schermo, l’attività
nello studio fotografico di pomeriggio, le sere e il fine settimana per il
giornale.
La
post-produzione divenne il perno attorno a cui ruotava il tempo di Pan giacchè,
oltre ad essere un bilioso, era un tipo puntiglioso, molto preciso, a cui
piaceva essere preparato, più preparato degli altri. - La tecnica è
essenziale, nessuno legge neanche il foglietto d’istruzioni della propria
macchina fotografica e perciò non sa neppure come usarla realmente - era solito
dire tornando a scagliarsi contro gli incompetenti e i dopolavoristi che sempre
più
affollavano
come una malerba la realtà locale. Nel
frattempo
continuava a trascorrere il suo tempo in prove di stampa nell’improbabile
intento di perseguire la perfezione.
- Vieni ti faccio vedere cosa si può fare con Photoshop –
l’apostrofava, di tanto in tanto, riemergendo dal suo schermo gigante e
Croselin pazientemente si metteva in ascolto di una lezione sui livelli, sui
ritocchi, sul pennello correttivo, sulle luci e sulle ombre, sulle curve, sul
bilanciamento colore ricavandone, ad un certo punto, una gran confusione, un
totale disorientamento, un bagaglio di nozioni teoriche appiccicate nella testa
che sicuramente avrebbe dimenticato di lì a poco preparando la cena. Si era
fatta l’idea che il tutto fosse troppo complicato da imparare per lei che di
professione non faceva la fotografa e che con il computer smanettava da poco
tempo, più per una sopraggiunta necessità professionale che per un vero
interesse personale.
Un
giorno per caso si accorse che la Pentax e i suoi obiettivi non erano più nel
cassetto d’angolo del saloncino di casa. Subito intuì che Pan aveva venduto
la “sua” macchina fotografica o quella che aveva creduto sua, così come
aveva venduto le altre vecchie analogiche,
compresa la Leica a cui tanto teneva. Lo
aveva fatto senza dirle neppure una parola come se avesse realizzato che a lei
non importasse niente della fotografia e di una macchina fotografica.
Ne provò una sottile delusione, pensò ad una sorta di disamore nei suoi
confronti.
Quella
sera si rese conto che Pan già da tempo non si coricava più con lei, come nei
primi anni, ma si attardava sempre più davanti al computer per un servizio che
doveva ancora scaricare, per qualche negativo che voleva trasformare in
digitale, per qualche foto vecchia, stropicciata e mal ridotta che qualcuno gli
aveva data da scannarizzare e riportare per quanto possibile ad antichi
splendori.
L’abitudine
ad attardarsi divenne presto una sorta di insonnia che lo coglieva dopo aver
dormito poche ore, vinto dalla stanchezza. Era al mattino che tardava a
risvegliarsi. Croselin lo lasciava addormentato posandogli la tazzina con il
caffè sul comodino, sicura che si sarebbe raffreddato, e se ne usciva per
l’ufficio.
Tornava
trafelata con la fretta di preparare una parvenza di pranzo e trovava Pan
davanti al computer intento in chissà quali importantissimi lavori. Si levava
infine ai suoi richiami - E’ in tavola! - lamentando dolori alla nuca,
cervicali perniciose, inappetenze svogliate, problemi digestivi e un certo
mutismo di fondo, talvolta scontroso.
Il
pomodoro mi fa acido, preferisco non mangiarlo - farfugliava sedendosi a tavola
Il
risotto non lo digerisco, mangio un pomodoro con un po’ di sale – cominciò
a dire Pan sempre più spesso.
Croselin
prese a “badarci”, a collezionare in silenzio i segni del disamore.
Un
poco preoccupata, un poco seccata insistette molto per organizzare un viaggio.
Un viaggio da qualche parte, lontano dal computer avrebbe fatto certamente bene
ad entrambi!
Decisero
per un economico viaggio in Ungheria, senza strafare, poichè a Pan il lavoro
scarseggiava nonostante fosse tutti i giorni della settimana completamente
impegnato a casa e allo studio e per il giornale.
Mi
farò prestare la piccola compatta di Maurilla, tanto per fare qualche foto
anch’io - buttò lì, ma Pan non sembrò raccogliere la provocazione e
Croselin non insistette più di
tanto.
Budapest
aveva i colori e il freddo pungente dell’inverno, giornate corte e grigie e
molti interni illuminati dal giallo delle lampade, troppo impegnativi per la sua
economica compatta, mai usata prima
e presa a prestito da Maurilla. Se ne rese conto ritornati a casa
pochi giorni dopo, quando Pan installò sul suo portatile comprato di
seconda mano, Photoshop Element e la lasciò alle sue fotografie rituffandosi
nelle abituali attività. E Croselin, quasi si fosse trattato della prova della
vita, cominciò ad armeggiare sulle tonalità scure delle sue fotografie, sui
colori dei cavalli ripresi all’imbrunire in uno dei centri ippici ungheresi,
spettacolo di cavalieri, carri e cavalli predisposto per i turisti impacchettati
dei viaggi organizzati.
-
Certo che finchè continuerai ad utilizzare il sistema operativo che hai sul tuo
portatile, non potrai capire la fotografia digitale – sentenziò Pan buttando
l’occhio, su sua richiesta, alle foto dell’Ungheria
– quel miserrimo schermo non ti consente di vedere i colori. E furono,
Croselin lo capì senza dubbi, parole definitive. Ripassò le fotografie una ad
una, i colori le sembrarono troppo spenti e li riprese nuovamente, ma divennero
troppo intensi, cupi. E più tentava di venirne a capo, più li sfalsava
completamente. I verdi divennero blu e i gialli arancio.
Croselin
si convinse di non essere adatta per la fotografia: nonostante la buona volontà
e l’impegno profuso per tutte le sere di
una
settimana le foto erano decisamente brutte. Si decise infine ad arrendersi,
consapevole di essere arrivata anche alla fine di un amore. Stava, la fine
dell’amore, nell’indifferenza e nel silenzio, in un sorta di isolamento di
Pan dentro la casa.
Vai
tu a cena con Laudomia e gli altri. Io non ne ho voglia, resto a casa – Ho
troppo da fare questo fine settimana – Non mi sento di cenare, prendo più
tardi un po’ di latte - cominciarono
ad essere le frasi ricorrenti che accompagnavano nuovi malanni, questa volta
alla schiena, sempre più intensi e
prolungati, da curare con il fai da te degli antinfiammatori.
Dovresti
farti vedere da un medico, se vuoi ti ci accompagno - si
azzardò a dire Croselin, ma Pan si girò dall’altra parte infastidito.
Passarono
i mesi mentre l’agonia del disamore non accennava a terminare, anzi Pan se ne
stava il più del tempo sdraiato sul divano di casa in preda alle nausee e al
mal di stomaco che i farmaci gli procuravano. Infine Croselin si decise per
entrambi e gli disse che era tempo di separarsi. Pan la guardò solo un istante,
poi si girò dall’altra parte.
Prima
ancora che avessero cambiato casa, dopo neanche un mese,
l’amica Maurilla le fece la cortesia di dirle di aver visto una sera
Pan in una pizzeria in atteggiamenti sentimentali con una fotografa.
Lei
Croselin, sistemandosi in una nuova casa, si comprò un vero computer e una
compatta decente, dieci megapixel, 35 mm e zoom… . Prese a fotografare uccelli
ed alberi, nuvole e fiori, vicoli e portali con la leggerezza di una dilettante
su cui non incombeva il giudizio del “maestro” e imparò pure qualcosa di
fotoritocco, quel poco che occorre a dare brillantezza ai colori o a cancellare
gli occhi rossi.
Di
lui le rimase una grande fotografia, 30 x 24, in bianco e nero fatta da un amico
fotografo una sera d’estate: un ritratto quasi in posa del “maestro” con
la reflex appoggiata nell’incavo del collo, la testa un po’ inclinata, lo
sguardo diretto al lato opposto.
Una
splendida foto d’autore.
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