Giampaola Cavallari
Giampaola Cavallari

IL RITRATTO

 

        racconti

In un caldo pomeriggio d’estate mi trovavo a passeggiare  sotto un portico, nella centralissima piazza del paese. Stavo aspettando mio marito, che era andato a fare delle consegne per lavoro e aveva parcheggiato l’auto lì vicino. Ero davanti alla vetrina di un robivecchi e antiche cianfrusaglie. Il negozio era una collezione di vecchie tazzine da the, calici di cristallo ancora scintillanti, posate d’argento opacizzate dal tempo, vecchi divani sdruciti, sedie di plastica scheggiate e altre finemente impagliate, o tappezzate di raso bianco e dalla foggia aristocratica; eleganti credenze tirate a lucido accanto a poveri comodini. Un’infinità di oggetti raffinati, mescolati ad inutili orpelli e al più assurdo ciarpame. Come tanti piccoli e grandi animali di razza e non, senza più un’anima abbandonati in uno zoo. E poi là in fondo, sulla destra del negozio, appoggiata alla vetrina e dimenticata in un angolo, la vidi: una foto in bianco e nero. Incuriosita, girai l’angolo e mi avvicinai a quel lato del negozio per sbirciare il ritratto: la cornice, di legno scuro, racchiudeva una foto d’inizio novecento dai toni color seppia e ritraeva una coppia di anziani. Il viso della donna appariva ancora fresco e gentile. I capelli, candidi, erano spartiti in due bande e raccolti sulla nuca in una specie di crocchia, mentre dalviso di lui traspariva un’espressione severa e al collo portava annodato un fazzoletto contadino. Gli occhi,piccoli e chiari, forse un tempo di un bel verde smeraldo, erano incorniciati da sottili sopracciglia bianche. Parevano occhi dentro ai quali, un tempo, si sarebbe potuto leggere, trasparenti come il chiaro fondale di un mare incontaminato.Fui colta da un’improvvisa emozione. Quegli sguardi mi stavano dicendo qualcosa, qualcosa degli attimi precedenti allo scatto. Frammenti di vita. A un tratto il portico, la piazza,il traffico caotico; il bar di fronte, l’aroma del caffè, lo sbattimento di piatti, il tintinnio di posate, dei bicchieri; il vociare  confuso della gente… una cacofonia di suoni distratti e di profumi familiari, lentamente… svanì.Come in un sogno mi sentii sbalzata nel passato e mi ritrovai in quello studio fotografico, cent’anni prima: Carlo e Maria, con l’emozione della loro prima foto. L’attesa in un elegante salottino tappezzato di rosso che profuma di viole. L’impazienza di entrare. Lei ha le mani sudate. Ogni tanto si aggiusta le pieghe della gonna, si passe le mani tra i capelli:

 “Sono a posto?”  

“Sì, sei a posto” la tranquillizza lui sorridendo, il tono dolce.

“Avremo fatto la scelta giusta venendo qui?” riprende la donna

L’uomo sbuffa, si passa il fazzoletto sulla fronte per asciugarsi il sudore, poi riprende: “Certo che abbiamo fatto la scelta giusta!”

“Ma a che serve tutto ciò?”

“Suvvia!” esclama spazientito. “Sarà un ricordo per i nostri figli, per i nostri nipoti, eppoi al giorno d’oggi,  chi  non ha in casa un ritratto? Rilassati Maria, abbiamo fatto la cosa giusta. Così nessuno si dimenticherà di noi”.

Una porta si apre cigolando e appare un ometto basso coi baffi. Indossa un camice nero e porta un paio di occhiali tondi cerchiati di nero. Assomiglia a un buffo animaletto sbucato all’improvviso dalla sua tana. Sorride e invita la coppia ad entrare: “Prego…  accomodatevi!”

Maria ha il cuore in gola. L’emozione è fortissima e, dopo un attimo di esitazione, trattiene il respiro ed entra. E’ una stanza molto ampia, dal soffitto altissimo, saranno più di quattro metri. Di fronte, una parete completamente finestrata dà su un giardino verdeggiante che s’intravede appena; la luce del sole che filtra attraverso le pesanti tende che coprono le vetrate  è acceccante. E’ un’afosa giornata di luglio e fa’ molto caldo. L’aria è soffocante e la stanza odora di acido. L’ometto coi baffi va dietro un bancone,  fruga tra i suoi arnesi sotto il banco e farfuglia  parole incomprensibili. La parete alle sue spalle è ricoperta da un unico scaffale pieno di scatole di cartone e vasche di metallo smaltate di bianco. Ce ne sono di grandi, medie, piccole e piccolissime.

“Se siete pronti, io comincerei” annuncia l’ometto. Poi si avvicina alla coppia, drizza loro le spalle, aggiusta i visi e raccomanda: “Non muovetevi, dovete aver pazienza, ci vorrà un po’”.

La donna, timidamente si avvicina al suo compagno, cerca la sua mano, callosa e sudata e gli bisbiglia a denti stretti:

“… Carlo!”

    “Che c’è? Non mi posso muovere, non ora, ti prego… mi viene da ridere!”

“Carlo, ti ricordi quando ti sei presentato ai miei?”

“ Sì, mi ricordo… ma non ora”.

“Ti ricordi quella sera, quando hai raccontato ai miei genitori che avevamo tardato perché ci eravamo addormentati sull’erba, mentre in realtà avevamo ballato tutta la notte?”

“Ah, che notte quella notte Maria!” confessa l’uomo in un sussurro.  “Be’, ora che ci penso, ne abbiamo parecchie di bugie sulla coscienza, non ti pare?”

“Sì, ne abbiamo parecchie. Sai, secondo me non ci hanno mai creduto sul serio. Eravamo troppo sudati; e col fiato un po’ troppo corto! Ricordo le occhiatine di mamma, e papà che le sorrideva, eppoi si schiariva la voce per trattenere una risatina…”

“Carlo, ti ricordi il giorno in cui ci siamo conosciuti?”

“E come faccio a dimenticarmelo Maria!”

 

La sua mente andò a ritroso nel tempo. Si alzò in volo leggera per seguire l’onda del passato,  lasciandosi cullare dal mare dei ricordi:

 

“Festa di San Giovanni, Solstizio d’estate.

Come i fuochi di quella notte magica, il tuo viso m’incendiò il cuore. Fu allora che ti vidi Maria. Fu allora che ti voltasti. E come una visione, mi apparve il tuo viso pulito, i riflessi del fuoco lo coloravano d’ambra. Le tue labbra profumate di ribes. I miei occhi nei tuoi occhi… e le tue guance si colorarono di un lieve rossore.

I canti gioiosi nella frescura della notte estiva; e le nenie intonate dai contadini per propiziarsi il raccolto. Acqua e fuoco, fonti di speranza purificatrice: la buona terra. E ti guardai danzare, a piedi nudi, sulla nuda terra: ammirai il tuo corpo di donna bambina muoversi nell’armonia di movenze sinuose:

Come sei bella, Maria. Sciogli e fai fluttuare i tuoi capelli di sole. Leva in alto le mani, mostrando il tuo viso gentile. Gira piano, affinché tutti lo possano vedere. La tua gonna multicolore frulla nel suono vorticoso della musica, mentre i tuoi piccoli piedi girano e seguono il ritmo.

Oh, Maria! Ricordo l’aria deliziata dal profumo di foglie e fiori di lavanda, menta, ruta e rosmarino, adagiati in un bacile colmo d’acqua lasciato fuori tutta la notte.

Al risveglio, immergendovi le mani fino al gomito, ti bagnavi il viso con quest’acqua, per aumentarne la bellezza e preservarti dalla malattia.

Oggi, le rughe che ti solcano il viso sono i  dolori che la vita, crudele,  ti ha inflitto. Ma ogni piega del tuo volto è un sorriso che hai donato, che ti  illumina, di bellezza eterna… “

 

L’uomo, senza potersi girare, a un tratto cinse in vita stringendola a sé la sua donna,  tentando di mantenersi immobile col sorriso stretto:

“E’ stato bello stare con te, Maria”

“Lo stesso per me, Carlo. Ma ora non muoverti; stai fermo, sennò deve rifarla!”

Ti amo Maria! Sei tu, la buona terra.

“Ti a… ”

Quelle ultime parole, pronunciate in un soffio,  le morirono sulle labbra.

Uno scatto, e un lampo di luce fissò l’attimo. Per sempre.

L’ometto di fronte a loro alzò il telo nero emergendo dal suo nascondiglio; fece un cenno con la mano. La scatola magica sul cavalletto aveva funzionato a dovere: l’immagine risultò perfetta.

Non sarebbero dovuti ritornare.

 

 

“Che cos’hai?”

Il mio corpo ebbe un sussulto.

“Mi sembri lontana mille miglia da qui” La voce di mio marito mi richiamò alla realtà.

“Tranquillo, non ho nulla” lo rassicurai. “Stavo solo guardando questa vetrina”.

Scuotendo la testa mi disse sorridendo: “Sei sempre con la testa fra le nuvole. Forza, andiamo, che il disco orario è già scaduto e non vorrei proprio beccarmi una multa!”

Nel frattempo, una ragazza uscì dal negozio di robivecchi e cianfrusaglie. Era raggiante, e reggeva sotto il braccio la  pesante cornice.

All’improvviso provai rabbia, gelosia e invidia. Questi tre sentimenti, come tre infide e ingannevoli sorelle, s’impadronirono di me. Rabbia per aver esitato ad entrare.  Gelosia,  per un qualcosa che sentivo mi appartenesse. Invidia, nel veder sfuggire un’occasione.

Poi il sollievo che quel ritratto, quei due volti sconosciuti, avessero finalmente ritrovato la loro anima, dissipò la mia rabbia, la mia gelosia, la mia invidia.

 

“Che stupida!” Mi dissi  “E’ tutto frutto della tua immaginazione…  O forse no?

 

“Addio Carlo. Addio Maria. Chiunque voi siate stati” pensai tra me “Ora, da qualche parete,  potrete di nuovo incrociare gli sguardi di chi magari riconoscerà nei vostri occhi, quelli di persone amate e mai conosciute.

 

Salimmo in macchina. Mio marito inserì la chiave, avviò il motore e l’auto con un rombo, partì.