In
un caldo pomeriggio d’estate mi trovavo a passeggiare
sotto un portico, nella centralissima piazza del paese. Stavo aspettando
mio marito, che era andato a fare delle consegne per lavoro e aveva parcheggiato
l’auto lì vicino. Ero davanti alla vetrina di un robivecchi e antiche
cianfrusaglie. Il negozio era una collezione di vecchie tazzine da the, calici
di cristallo ancora scintillanti, posate d’argento opacizzate dal tempo,
vecchi divani sdruciti, sedie di plastica scheggiate e altre finemente
impagliate, o tappezzate di raso bianco e dalla foggia aristocratica; eleganti
credenze tirate a lucido accanto a poveri comodini. Un’infinità di oggetti
raffinati, mescolati ad inutili orpelli e al più assurdo ciarpame. Come tanti
piccoli e grandi animali di razza e non, senza più un’anima abbandonati in
uno zoo. E poi là in fondo, sulla
destra del negozio, appoggiata alla vetrina e dimenticata in un angolo, la vidi:
una foto in bianco e nero. Incuriosita, girai l’angolo e mi avvicinai a quel
lato del negozio per sbirciare il ritratto: la cornice, di legno scuro,
racchiudeva una foto d’inizio novecento dai toni color seppia e ritraeva una
coppia di anziani. Il
viso della donna appariva ancora fresco e gentile. I capelli, candidi, erano
spartiti in due bande e raccolti
sulla nuca in una specie di crocchia, mentre dalviso di lui traspariva un’espressione severa e al collo portava
annodato un fazzoletto contadino. Gli occhi,piccoli e chiari, forse un
tempo di un bel verde smeraldo, erano incorniciati da sottili sopracciglia
bianche. Parevano occhi dentro ai quali, un tempo, si sarebbe potuto leggere,
trasparenti come il chiaro fondale di un mare incontaminato.Fui
colta da un’improvvisa emozione. Quegli sguardi mi stavano dicendo qualcosa,
qualcosa degli attimi precedenti allo scatto. Frammenti di vita.
A
un tratto il portico, la piazza,il
traffico caotico; il bar di fronte, l’aroma del caffè, lo sbattimento di
piatti, il tintinnio di posate, dei bicchieri; il vociare
confuso della gente… una cacofonia di suoni distratti e di profumi
familiari, lentamente… svanì.Come
in un sogno mi sentii sbalzata nel passato e mi ritrovai in quello studio
fotografico, cent’anni prima: Carlo e Maria, con l’emozione della loro prima
foto. L’attesa
in un elegante salottino tappezzato di rosso che profuma di viole.
L’impazienza di entrare. Lei ha le mani sudate. Ogni tanto si aggiusta le
pieghe della gonna, si passe le mani tra i capelli:
“Sono
a posto?”
“Sì,
sei a posto” la tranquillizza lui sorridendo, il tono dolce.
“Avremo
fatto la scelta giusta venendo qui?” riprende la donna
L’uomo
sbuffa, si passa il fazzoletto sulla fronte per asciugarsi il sudore, poi
riprende: “Certo che abbiamo fatto la scelta giusta!”
“Ma
a che serve tutto ciò?”
“Suvvia!”
esclama spazientito. “Sarà un ricordo per i nostri figli, per i nostri
nipoti, eppoi al giorno d’oggi, chi
non ha in casa un ritratto? Rilassati Maria, abbiamo fatto la cosa
giusta. Così nessuno si dimenticherà di noi”.
Una
porta si apre cigolando e appare un ometto basso coi baffi. Indossa un camice
nero e porta un paio di occhiali tondi cerchiati di nero. Assomiglia a un buffo
animaletto sbucato all’improvviso dalla sua tana. Sorride e invita la coppia
ad entrare: “Prego… accomodatevi!”
Maria
ha il cuore in gola. L’emozione è fortissima e, dopo un attimo di esitazione,
trattiene il respiro ed entra. E’ una stanza molto ampia, dal soffitto
altissimo, saranno più di quattro metri. Di fronte, una parete completamente
finestrata dà su un giardino verdeggiante che s’intravede appena; la luce del
sole che filtra attraverso le pesanti tende che coprono le vetrate è
acceccante. E’ un’afosa giornata di luglio e fa’ molto caldo. L’aria è
soffocante e la stanza odora di acido. L’ometto coi baffi va dietro un
bancone, fruga tra i suoi arnesi
sotto il banco e farfuglia parole
incomprensibili. La parete alle sue spalle è ricoperta da un unico scaffale
pieno di scatole di cartone e vasche di metallo smaltate di bianco. Ce ne sono
di grandi, medie, piccole e piccolissime.
“Se
siete pronti, io comincerei” annuncia l’ometto. Poi si avvicina alla coppia,
drizza loro le spalle, aggiusta i visi e raccomanda: “Non muovetevi, dovete
aver pazienza, ci vorrà un po’”.
La
donna, timidamente si avvicina al suo compagno, cerca la sua mano, callosa e
sudata e gli bisbiglia a denti stretti:
“…
Carlo!”
“Che c’è? Non mi posso muovere, non ora, ti prego… mi viene da
ridere!”
“Carlo,
ti ricordi quando ti sei presentato ai miei?”
“
Sì, mi ricordo… ma non ora”.
“Ti
ricordi quella sera, quando hai raccontato ai miei genitori che avevamo tardato
perché ci eravamo addormentati sull’erba, mentre in realtà avevamo ballato
tutta la notte?”
“Ah,
che notte quella notte Maria!” confessa l’uomo in un sussurro.
“Be’, ora che ci penso, ne abbiamo parecchie di bugie sulla
coscienza, non ti pare?”
“Sì,
ne abbiamo parecchie. Sai, secondo me non ci hanno mai creduto sul serio.
Eravamo troppo sudati; e col fiato un po’ troppo corto! Ricordo le occhiatine
di mamma, e papà che le sorrideva, eppoi si schiariva la voce per trattenere
una risatina…”
“Carlo,
ti ricordi il giorno in cui ci siamo conosciuti?”
“E
come faccio a dimenticarmelo Maria!”
La
sua mente andò a ritroso nel tempo. Si alzò in volo leggera per seguire
l’onda del passato, lasciandosi
cullare dal mare dei ricordi:
“Festa
di San Giovanni, Solstizio d’estate.
Come
i fuochi di quella notte magica, il tuo viso m’incendiò il cuore. Fu allora
che ti vidi Maria. Fu allora che ti voltasti. E come una visione, mi apparve il
tuo viso pulito, i riflessi del fuoco lo coloravano d’ambra. Le tue labbra
profumate di ribes. I miei occhi nei tuoi occhi… e le tue guance si colorarono
di un lieve rossore.
I
canti gioiosi nella frescura della notte estiva; e le nenie intonate dai
contadini per propiziarsi il raccolto. Acqua e fuoco, fonti di speranza
purificatrice: la buona terra. E ti guardai danzare, a piedi nudi, sulla nuda
terra: ammirai il tuo corpo di donna bambina muoversi nell’armonia di movenze
sinuose:
Come
sei bella, Maria. Sciogli e fai fluttuare i tuoi capelli di sole. Leva in alto
le mani, mostrando il tuo viso gentile. Gira piano, affinché tutti lo possano
vedere. La tua gonna multicolore frulla nel suono vorticoso della musica, mentre
i tuoi piccoli piedi girano e seguono il ritmo.
Oh,
Maria! Ricordo l’aria deliziata dal profumo di foglie e fiori di lavanda,
menta, ruta e rosmarino, adagiati in un bacile colmo d’acqua lasciato fuori
tutta la notte.
Al
risveglio, immergendovi le mani fino al gomito, ti bagnavi il viso con
quest’acqua, per aumentarne la bellezza e preservarti dalla malattia.
Oggi,
le rughe che ti solcano il viso sono i dolori
che la vita, crudele, ti ha
inflitto. Ma ogni piega del tuo volto è un sorriso che hai donato, che ti
illumina, di bellezza eterna… “
L’uomo,
senza potersi girare, a un tratto cinse in vita stringendola a sé la sua donna,
tentando di mantenersi immobile col
sorriso stretto:
“E’
stato bello stare con te, Maria”
“Lo
stesso per me, Carlo. Ma ora non muoverti; stai fermo, sennò deve rifarla!”
Ti
amo Maria! Sei tu, la buona terra.
“Ti
a… ”
Quelle
ultime parole, pronunciate in un soffio, le
morirono sulle labbra.
Uno
scatto, e un lampo di luce fissò l’attimo. Per sempre.
L’ometto
di fronte a loro alzò il telo nero emergendo dal suo nascondiglio; fece un
cenno con la mano. La scatola magica sul cavalletto aveva funzionato a dovere:
l’immagine risultò perfetta.
Non
sarebbero dovuti ritornare.
“Che
cos’hai?”
Il
mio corpo ebbe un sussulto.
“Mi
sembri lontana mille miglia da qui” La voce di mio marito mi richiamò alla
realtà.
“Tranquillo,
non ho nulla” lo rassicurai. “Stavo solo guardando questa vetrina”.
Scuotendo
la testa mi disse sorridendo: “Sei sempre con la testa fra le nuvole. Forza,
andiamo, che il disco orario è già scaduto e non vorrei proprio beccarmi una
multa!”
Nel
frattempo, una ragazza uscì dal negozio di robivecchi e cianfrusaglie. Era
raggiante, e reggeva sotto il braccio la pesante
cornice.
All’improvviso
provai rabbia, gelosia e invidia. Questi tre sentimenti, come tre infide e
ingannevoli sorelle, s’impadronirono di me. Rabbia per aver esitato ad
entrare. Gelosia, per
un qualcosa che sentivo mi appartenesse. Invidia, nel veder sfuggire
un’occasione.
Poi
il sollievo che quel ritratto, quei due volti sconosciuti, avessero finalmente
ritrovato la loro anima, dissipò la mia rabbia, la mia gelosia, la mia invidia.
“Che
stupida!” Mi dissi “E’ tutto
frutto della tua immaginazione… O
forse no?
“Addio
Carlo. Addio Maria. Chiunque voi siate stati” pensai tra me “Ora, da qualche
parete, potrete di nuovo incrociare
gli sguardi di chi magari riconoscerà nei vostri occhi, quelli di persone amate
e mai conosciute.
Salimmo
in macchina. Mio marito inserì la chiave, avviò il motore e l’auto con un
rombo, partì.
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