Le
gambe di Antonietta cominciavano ad avvertire un leggero affaticamento. Quella
mattina la terapia riabilitativa prevedeva, oltre i soliti esercizi, anche
l’utilizzo di una cyclette. La rottura di un femore a quasi ottant’anni è
una vera rogna, soprattutto se si è avuto due infarti venti anni prima,
un’operazione alla tiroide, e si è usciti vivi dall’asportazione di un
tumore che si è portato dietro mezzo stomaco.
Antonietta,
però sembrava aver superato anche l’ultima operazione, quella in cui le hanno
rimesso a posto un femore spezzatosi come la cialda croccante di un cono gelato,
dopo una banale caduta a causa di un capogiro dovuto a un’ipoglicemia
occasionale.
Adesso
Antonietta trasudava immortalità nella sua tuta rosa, intenta a portare a
termine i quindici minuti di pedalata prevista dal fisioterapista Michele, un
giovane robusto che aveva tutta l’aria di non voler mai essere contraddetto,
in particolar modo nel suo lavoro.
D'altronde
le nonnine e i nonnini ospiti della casa di cura Maria Stella, cercavano sempre
di ottenere degli sconticini con frasi e gesti che invogliavano alla
compassione, ma lui sapeva ben distinguere le scuse per pigrizia dalle reali
esigenze della vecchiaia.
Quella
mattina, Antonietta sulla cyclette cominciava a sudare. La maglietta bianca
della Nike, che la nipote Giada le aveva portato da Roma, cominciava ad
appiccicarsi sulla schiena, ma i piedi dentro le sue scarpe da ginnastica
comprate per l’occasione, affondavano decisi sui pedali.
–
E… quindici! – esclamò Antonietta tutta soddisfatta, mentre levava via
dalla fronte le gocce di sudore evaporate.
–
Bella signora, per oggi ha finito. Può tornare in camera sua, Annalisa la
riaccompagnerà – disse Michele, contento dei progressi che quella vecchietta
faceva di giorno in giorno.
Antonietta
scese dalla cyclette con estrema lentezza, le gambe le tremavano e stavolta un
leggero affanno le gravava sul cuore. Ciò non la turbò più di tanto e aiutata
da Annalisa fece ritorno in camera sua, dove trovò Olga, la sua vicina di
letto, intenta a ricontare i punti di un centrino all’uncinetto, fatto e
disfatto svariate volte.
–
Oggi mi hanno fatto pedalare – disse Antonietta rivolgendosi alla sua compagna
di camera.
–
Cosa? Ti hanno fatto ballare? – chiese Olga, dando lievi colpetti
all’apparecchio acustico posto dietro l’orecchio sinistro.
–
Non ballare, pe-da-la-re – Antonietta scandì bene le sillabe del verbo
muovendo le braccia in modo circolare indicando l’azione della pedalata.
–
Ah, pedalare! Con la bicicletta?
–
No, con la cyclette.
–
Cosa?
–
Cyclette. Cy-clet-te… - scandì ancora una volta Antonietta cominciando a
perdere la pazienza.
–
Civette? – chiese Olga sicura di aver capito una cosa per un’altra.
–
Lascia stare, te lo dico dopo. Vado a cambiarmi – tagliò corto Antonietta,
dirigendosi verso il bagno situato di fronte il letto di Olga aiutandosi con il
tre piedi.
–
Ah, bello. Deve essere stato divertente! – aggiunse Olga, mentre un ultimo
colpetto all’apparecchio acustico gli fece emettere un lungo fischio.
Anche
Olga si era operata al femore, spezzatosi dopo uno scivolone lungo il corridoio,
dove Enzo III, un cane trovatello color grigio topo, con il pelo sempre
arruffato, aveva lasciato l’ennesima pipì.
Da
quando Olga era rimasta vedova, aveva avuto tre cani, un pappagallo e due
pesciolini rossi. Non le interessava conoscerne il sesso, perché tanto
avrebbero portato tutti immancabilmente il nome del marito defunto.
Mancanza
di fantasia? No. Semplice elogio di un marito fedele come un cane, inceppato
come un pappagallo e che Olga avrebbe tanto voluto fosse muto come un pesce.
Antonietta
uscì dal bagno rinfrescata e profumata, pronta per ricevere le visite
mattutine. Di solito andavano a trovarla suo figlio maggiore Orazio e la moglie
Maria, meno spesso l’altro suo figlio, Franco, quasi mai la nuora Elsa.
Orazio
e Franco, entrambi laureati in giurisprudenza, avevano seguito le orme del
padre, avvocato di successo. Tra i due, però appena iniziata l’attività
lavorativa, venne a mancare la spensierata complicità degli anni giovanili.
Orazio,
più grande di Franco di due anni, sembrava essere il figlio prediletto del
padre, che nel suo studio lo aveva da subito inserito senza alcuna riserva.
Franco, invece, sembrava stare sempre un passo più indietro rispetto al
fratello e faticava parecchio per farsi spazio e dimostrare al padre il suo
valore.
Presto
tra i due si è scatenata un’avariata rivalità che li ha spinti, dopo la
morte del genitore, a separare le loro strade.
Antonietta
soffriva per quest’astio tra i due fratelli, ma per quanto l’amore materno
l’avesse più volte spinta a perdonargli ogni cosa, certe volte doveva
ammettere, nella propria intima solitudine, che molte scelte fatte da Franco non
le garbavano per niente. Tra tutte, quella che più non riusciva a digerire era
la scelta della compagna della sua vita: Elsa, acronimo di Egoista, Lecchina,
Senza cuore, Apatica, secondo il dizionario di una madre che cresce un figlio
ventinove anni per poi vederlo cadere in un baratro senza via d’uscita.
Antonietta
si è sforzata di farsi piacere quella ragazzina arrivista, che trattava suo
figlio con finto fare lezioso, nascondendo segrete, appuntite unghie velenose.
Ha
cercato di mascherare i dubbi che la attanagliavano, ma nel corso degli anni è
diventato sempre più difficile, qualcosa sarà trapelato, perché se prima Elsa
stringeva con lei solo rapporti convenevoli durante i quali le due donne
scambiavano finti baci augurali, falsi entusiasmi per piacevoli notizie,
artefatti atteggiamenti affettuosi, negli ultimi anni i loro rapporti si erano
ristretti come un maglione infeltrito, riducendosi in qualche breve telefonata e
sporadiche visite solo in casi di malattia seria.
In
effetti, Elsa tutte le volte che Antonietta era stata ricoverata in ospedale
c’era sempre andata, ma Antonietta credeva che in realtà Elsa andasse a
trovarla solo per accertarsi che quella volta non se la sarebbe cavata, tant’è
vero che quando Antonietta cominciava a riprendersi, le sue visite si riducevano
e Franco annaspava nella confusa ricerca di scuse sempre più ridicole e assurde
per giustificare l’assenza della moglie. Antonietta, però di pasta dura, alla
fine ce l’aveva sempre fatta.
Quella
mattina Olga sapeva già che non avrebbe ricevuto visite quindi lavorava serena
l’uncinetto, Antonietta, invece, sfogliava distratta una rivista, aspettando
con ansia l’orario delle visite dei parenti, per poter inscenare la parte
della moribonda disperata pronta a schiattare da un momento all’altro.
Dei
passi svelti lungo il corridoio, la avvisarono che già le infermiere avevano
aperto la grande porta di vetro trasparente che dava l’accesso alle camere dei
pazienti. Posò in fretta la rivista sul comodino, affondò il corpo sotto il
copriletto e socchiuse gli occhi. Dalla bocca spalancata fuoriusciva un finto
lamento.
Rimase
in questa posizione per qualche minuto, poi qualcuno entrò in camera.
–
Sta dormendo – disse sottovoce Maria.
–
Ahi…cheeeeee…maaaaaaleeeee… - mugolò Antonietta.
–
Mamma, come ti senti? – chiese preoccupato Orazio.
–
Beeeeneee…nooooon tiii preooooccupareee, ahi, ahi – continuò Antonietta
mentre cercava di tirarsi su con la schiena.
–
Aspetta, ti aiuto io – disse svelto Orazio.
Era
proprio questo che voleva Antonietta, ricevere un po’ di attenzioni, sentire
sul suo corpo le mani forti di quel figlio che tante volte aveva stretto al
petto e ora, sembrava incredibile, era lui ad abbracciarla, a rassicurarla.
Antonietta,
però pur recitando benissimo la parte della moribonda, non riusciva a
sostenerla per lungo tempo e quasi subito si riprendeva miracolosamente da ogni
malanno, ma per sostenere la sua parte da moribonda doveva comunque ogni tanto
fingere qualche fitta accompagnata da una smorfia o interrompere ansimante il
discorso come se avesse bisogno di riprendere fiato.
–
Guarda mamma - disse la nuora mostrandole la copertina colorata di un album di
foto – ti ho portato le foto di Paoletto, guarda com’è cresciuto.
Orazio
e Maria avevano due figli Ludovico e Giada. Ludovico aveva ventitré anni, una
compagna e un bimbo di dieci mesi. Giada di anni ne aveva venti ed era una
studentessa universitaria. Dopo gli studi liceali si era iscritta in
Giurisprudenza sotto lo stimolo del padre, che vedendo sfumare la carriera di
avvocatura del figlio maschio costretto a mantenere una famiglia arrivata
all’improvviso, aveva riposto ogni aspettativa su Giada.
Antonietta
prese in mano l’album e cominciò a sfogliarlo. Un tenero sorriso colorò il
suo volto tanto da marcare ulteriormente le rughe attorno alle labbra che nel
corso degli anni le hanno trivellato la pelle procurandole dei veri e propri
solchi.
Per
Antonietta tutte le foto, belle o brutte, sfocate o luminose, con inquadrature
da principianti o da professionisti, avevano un valore inestimabile. Qualcuno
con un semplice “clic” aveva reso eterni attimi fugaci, momenti effimeri e
transitori.
Ogni
foto era degna di rispetto nella sua carica emotiva. La sua vista, infatti,
aveva il magico potere di suscitare ilarità o tristezza, sciogliere gli animi
in commozione, aprire i condotti lacrimali e lavare il dolce ricordo del momento
reso eterno.
Una
foto riusciva a fermare il vento, gli spruzzi di un’onda infranta su una
spigolosa roccia, lo spiegarsi delle ali di un uccello in volo, il primo vagito
di un bimbo appena nato, il sigillo di un amore vestito di bianco dinanzi una
chiesa.
Una
foto segna per sempre ciò che oggi siamo per ricordarci domani com’eravamo.
Così
Antonietta guardava il piccolo Paoletto seduto sulla sabbia, circondato da
palette e secchielli di varie forme e dimensioni. La luce quel giorno era
ottima, infatti, la luminosità di quelle foto le rendeva reali al punto da
sentire l’odore frizzante del mare e percepire il caldo bollente della
spiaggia.
Persa
nello scrutare ogni singolo particolare di quell’album estivo, Antonietta sentì
all’improvviso una piacevole voce salutarla:
–
Nonna, ciao! – Esclamò Giada.
–
Giada? Non sapevo fossi qui – disse Antonietta sorpresa per quella visita
inaspettata.
–
Sono arrivata questa mattina e sono corsa da te. Roma per qualche giorno può
fare a meno di me – disse tutto d’un fiato Giada sorridente.
–
Gli studi possono fare a meno di te, vorresti dire – aggiunse Orazio, che era
preoccupato della carriera universitaria della figlia che in quell’ultimo
periodo sembrava andare un po’ a rilento.
–
Lasciala un po’ in pace, lei saprà cosa fare della propria vita – la difese
Antonietta.
Un
rondò veneziano fece vibrare il cellulare di Orazio il quale si affrettò a
rispondere e dopo trenta secondi di conversazione rapida e concisa riattaccò
dicendo:
–
Mamma, noi dobbiamo andare, c’è un problema con un cliente e devo correre in
Tribunale.
Baciò
in fretta Antonietta sulla fronte, Maria le sfiorò la guancia con la sua e
insieme uscirono dalla camera.
–
Allora, piccolina, cosa combini? – chiese Antonietta alla nipote tirando
lentamente le gambe giù dal letto per assumere una posizione seduta.
–
Niente, nonna – rispose Giada imbarazzata.
Antonietta
notò il suo sguardo triste cadere all’ingiù. Giada prese in mano la rivista
adagiata sul comodino e cominciò a sfogliarla con fare distratto. Voleva
mostrarsi tranquilla e indifferente, ma in realtà ad Antonietta arrivò tutto
il suo malessere.
Antonietta
aveva imparato a conoscere quella minuta ragazza dal visino delicato e puro, fin
da quando ancora bambina le faceva da baby sitter tutti i pomeriggi d’inverno.
Insieme, dopo il riposino pomeridiano, bevevano una cioccolata calda, poi
davanti al camino Antonietta dava libero sfogo alla sua fantasia e raccontava
alla nipotina storie fantastiche in cui draghi, fate, conigli volanti e canguri
nani intrecciavano tra di loro avventure varie. Giada poi con i pennarelli
rappresentava le storie della nonna, dando vita a quei personaggi fittizi le cui
parole aleggiavano dentro nuvolette spumose.
Giada
aveva un gran dono: riusciva senza fatica alcuna a dare tridimensionalità a
piatte pagine bianche. Le bastava chiudere gli occhi e immaginare, poi in un
gioco di chiaroscuri tirava fuori dei veri e propri capolavori. Antonietta
sembrava essere l’unica ad apprezzare quei lavori, nessun altro membro della
sua famiglia, infatti, mostrava serio interesse per quella dote, tanto che
quando Giada, dopo il conseguimento della licenza media, aveva espresso il
desiderio di frequentare il Liceo Artistico, le era stato detto che i sogni non
riempiono la pancia e per questo devono restare tali.
La
madre l’aveva iscritta il giorno dopo al Liceo Classico e Giada aveva
accettato senza alcuna ribellione.
Un
uccellino chiuso in gabbia cinguetta serene melodie, chi lo possiede se ne
delizia, ma non sa che sta ascoltando il triste canto della rassegnazione. E così
Giada frequentava Giurisprudenza lei che possedeva la dialettica del cuore e non
della parola, lei che non sarebbe mai riuscita a condannare nessuno con le sue
idee di libertà, lei che soffocava l’innato istinto cromatico, unico codice
che avrebbe potuto dare voce alle sue parole.
Giada,
negli ultimi mesi, stava avvertendo una forza soffocante stringerle la gola, un
cappio dal quale voleva liberarsi e l’unico modo per riuscirci era scappare
dalla città che la costringeva a quegli studi forzati a lei di sicuro non
adatti, ma tanto auspicati dal padre.
Solo
nonna Antonietta sembrava capire il suo disagio, per questo quando poteva andava
a trovarla, lei riusciva sempre a farla sorridere, spesso a sorprenderla. Fu così
anche quella mattina.
Antonietta
diede uno sguardo a Olga e la vide sonnecchiare con l’uncinetto in mano e il
centrino abbandonato sul largo e molle ventre, pensò quindi di poter parlare
liberamente con la nipote, poiché tra lo stordimento del sonno e
l’apparecchio acustico scarico Olga non avrebbe mai udito nulla di ciò che
Antonietta avrebbe svelato alla nipote.
–
Voglio raccontarti una storia. - Cominciò così il suo racconto Antonietta.
La
storia alla quale si riferiva risaliva all’estate del 1953. Erano gli anni del
boom economico e delle vacanze di massa. Tutte le famiglie si recavano al mare
con l’utilitaria e andavano ad affollare spiagge organizzate con tende al
posto dell’ombrellone.
Antonietta
aveva compiuto diciassette anni in primavera e cominciava ad avvertire su di sé
i primi sguardi dei giovanotti in cerca d’amore. Le avevano detto di tenere
gli occhi bassi, ma lei avrebbe tanto voluto alzarli e sottostare al gioco degli
sguardi fugaci.
Aveva
lasciato Milano durante una calda mattina di luglio ed era arrivata a Rimini con
i suoi genitori, la zia Luigina e la sorella Rosina, giusto in tempo per il
pranzo.
La
pensione che li ospitava aveva un’ampia terrazza alla quale s’imponeva la
vista del mare. Una strada separava la loro pensione dall’hotel Miramare, dal
quale i turisti tedeschi, senza inibizioni, scendevano direttamente in spiaggia
con accappatoio e zoccoli di legno già pronti per il bagno e per le sabbiature.
Era
la prima vera vacanza per Antonietta e perduto ben presto l’iniziale
smarrimento e senso di inadeguatezza, pensò fosse il caso di vivere in pieno
quell’esperienza che, in effetti, si è rivelata per lei davvero
indimenticabile.
La
sera dell’arrivo lei e la sorella passeggiavano allegre sul lungomare, mentre
subito dietro di loro i genitori e la zia Luigina chiacchieravano del più e del
meno.
Nonostante
il caldo della mattina, l’aria quella sera era frizzante a causa d’un alito
di vento che proveniva dal mare e Antonietta stringeva con entrambe le mani sul
petto, uno scialle giallo che le copriva le spalle e il decolté. I capelli
raccolti in una coda le ciondolavano ad ogni passo e lei fiera muoveva le gambe
dentro una gonna a palloncino fermata da una larga cintura.
La
decisione di fermarsi a un bar a prendere un gelato, la prese suo padre.
Occuparono quindi un tavolino collocato fuori dal bar sotto una tettoia montata
apposta per la stagione estiva, per proteggere i turisti dal sole della giornata
e dall’umidità della sera.
Un
cameriere passando tra i tavolini inavvertitamente fece cadere a terra lo
scialle che Antonietta aveva poggiato sulla spalliera della sedia. Un
giovanotto, però pronto lo raccolse e glielo restituì con fare gentile. Tra i
due vi fu uno scambio di sorrisi, poi il ragazzo scomparve dietro la porta
d’ingresso del bar.
Quella
sera nel suo letto Antonietta non riusciva a prendere sonno, sarebbe voluta
restare ancora sveglia, sul terrazzo, a respirare la luna riflessa sul mare, ma
a quell’epoca le ragazzine non avevano potere decisionale e quando il babbo
decideva qualsiasi cosa, questa doveva essere rispettata.
Antonietta,
però ribelle c’era nata e la voglia di vivere oltre le regole imposte le
apparteneva da quand’era bambina. Così, nel cuore della notte sgattaiolò
fuori sul balcone, lo scavalcò con l’agilità di uno scoiattolo e in men che
non si dica si ritrovò seduta su una sdraio umidiccia e appiccicosa, ma non le
importava, poiché voleva godersi quel momento di libera solitudine.
Una
voce, però presto la fece trasalire:
–
Questa luna sembra splendere più del solito – disse qualcuno alle sue spalle
nascosto nella penombra della notte.
–
Chi è? Chi c’è lì? – chiese impaurita Antonietta alzandosi di scatto.
La
voce diventò persona e Antonietta poté di riconoscerne il ragazzo che al bar
le aveva recuperato lo scialle. Si fece più vicino a lei finché occupò la
sdraio accanto a quella dove prima era seduta Antonietta.
–
Mi piace il silenzio della notte. Respirare la salsedine mi aiuta a liberare la
mente – continuò il ragazzo.
Anche
Antonietta prese posto sulla sdraio di prima e rimasero così, in silenzio, a
guardare la luna attorniata di stelle e il loro riflesso sul mare.
Quando
Antonietta si svegliò un telo da mare non suo la ricopriva per metà e il sole
cominciava a colorare di arancione l’acqua salata.
In
tutta fretta abbandonò il telo, rifece la strada che l’aveva condotta sul
terrazzo la notte prima in senso opposto e rientrò in camera sua. Nessuno si
era accorto della sua assenza.
Per
tutto il giorno, in spiaggia, al ristorante, sul lungomare Antonietta scrutò
tutti i giovanotti nella speranza di riconoscere in qualcuno di loro il ragazzo
del terrazzo. Sperava, infatti, di vedere alla
luce del sole il suo fisico alto e asciutto, i suoi capelli lisci e neri con un
taglio alla moda, gli occhi profondi color nocciola o risentire la sua voce,
sicura nell’emissione di ogni sillaba pronunciata.
Nel
pomeriggio si arrese. Pensò fosse solo di passaggio e non in vacanza, o forse
semplicemente aveva sognato.
Con
la disillusione nel cuore, lasciò lo stabilimento balneare per recarsi a fare
una passeggiata lungo il litorale con i suoi familiari. La zia e la madre si
soffermavano a guardare e a commentare ogni singola vetrina di ogni singolo
negozio. Lei, Rosina e il padre, poco più avanti, passeggiavano lentamente per
non dare troppo distacco alle due donne dietro.
All’improvviso
qualcosa di fresco cadde dall’alto e le bagnò capelli, spalle e vestito.
Una
signora grassoccia si scusò dall’alto di un balcone. Innaffiando, l’acqua
era fuoriuscita da uno dei vasi ed era caduta giù prendendo in pieno
Antonietta.
La
mamma e la zia si avvicinarono di corsa attirate dall’urlo della ragazza, poi
la spinsero dentro il negozio più vicino per ripulirla e renderla di nuovo
presentabile.
Una
volta dentro, Antonietta, con le mani cercò di asciugare il grosso del bagnato
frammisto a terra e foglioline secche che nel frattempo si erano appiccicate sui
suoi capelli e sulle sue braccia nude. Poi riconobbe la voce che diceva loro:
–
Posso esservi utile?
Antonietta
alzò lo sguardo verso chi aveva pronunciato quella frase e mai si era
vergognata tanto in vita sua. Sembrava uscita da una pozzanghera dopo
un’accidentale caduta.
Il
ragazzo che aveva cercato di individuare tra i bagnanti in quella giornata, ora
le forniva una asciugamani e la invitava ad andare sul retro dove c’era uno
specchio appeso sull’anta di un armadietto.
Quello
dove Antonietta si ripulì, era il retro di uno studio fotografico. Il
misterioso ragazzo era dunque un fotografo, ecco perché non era riuscita a
individuarlo tra i bagnanti.
Aiutata
dalla madre e dalla zia Luigina, Antonietta recuperò un aspetto lievemente
decente, tanto da potere sostenere la strada del rientro che avvenne in tutta
fretta.
Anche
quella notte Antonietta scavalcò il balcone e col cuore in gola lottava tra il
desiderio di trovare lì quel ragazzo gentile e la vergogna di essersi fatta
vedere in quelle disagiate condizioni.
Occupò
di nuovo la sdraio della notte precedente e restò in attesa, di cosa neanche
lei lo sapeva bene.
Lui
era già lì. Rimase nascosto per un po’ scrutandola al chiaror di luna. I
suoi capelli biondi sotto la luna, sembravano fili d’argento. Li teneva
sciolti, sulle spalle e a lui piacevano, perché erano diversi da quelli corti e
cotonati di tutte le ragazze che volevano assomigliare alla cantante più in
voga in quegli anni, Nilla Pizzi.
Poi
decise di venire allo scoperto e le andò vicino. Il silenzio della notte fu
complice delle sue parole. Gli bastò bisbigliare una”buonasera signorina”,
per suscitare la reazione di Antonietta, che udendolo gli sfoderò un sorriso
delizioso e imbarazzato insieme.
–
Una bella avventura, quella di oggi – disse lui.
–
Sì, davvero una bella avventura – rispose Antonietta, cercando di tenere giù
l’orlo della gonna che il vento faceva svolazzare.
–
Io sono Walter – disse il ragazzo porgendole la mano, poi si accomodò su una
sdraio.
–
Piacere, Antonietta – ricambiò lei – a proposito, grazie per avermi aiutato
oggi. Siete un fotografo – aggiunse col tono di chi vuole saperne di più.
–
In realtà do una mano a mio zio, lo studio è suo. Io d’estate faccio un
po’ di pratica – disse Walter, mentre portava entrambe le mani dietro la
nuca e incrociava le caviglie tra loro.
–
Non ho mai conosciuto un fotografo in tutta la mia vita – esclamò Antonietta,
pentendosi quasi subito di quella ridicola confessione.
–
Per me fotografare equivale a immobilizzare ciò che per sua natura è
immobilizzabile. – Poi alzandosi in piedi e raggiungendo la ringhiera del
terrazzo, aggiunse – nessuno può fermare l’attimo dello spumeggiare di
un’onda, né tanto meno la caduta di una foglia in autunno, o l’emozione che
una luna riflessa sullo specchio d’acqua può procurare in un determinato
momento. – Poi giratosi, guardò negli occhi Antonietta, che lo ascoltava
rapita, e aggiunse – solo il fotografo è stato investito di questo potere.
Coglie l’attimo e lo rende eterno.
Antonietta,
affascinata dal discorrere di quel giovane uomo, se ne stava rannicchiata sulla
sdraio, con le gambe contro il petto.
Walter
le confessò i suoi sogni più intimi trascinato dalla serena accondiscendenza
di quella ragazza che senza conoscerlo gli dedicava tempo e ore rubate alla
notte.
Le
giornate trascorrevano tranquille durante quel soggiorno estivo e Antonietta
spogliata dall’umido della nebbia milanese, si sentiva rigenerata sotto i
caldi raggi solari. La notte, però le spruzzava addosso un friccichio
nell’anima che mai più Antonietta avrebbe provato per il resto della sua
vita.
Una
sera, in particolar modo, Antonietta conobbe i moti del cuore.
Walter
le diceva che presto avrebbe lasciato l’Italia, sarebbe andato in America. Si
raccontavano meraviglie sulle possibilità di vita negli Stati Uniti e lui era
sicuro che lì sarebbe riuscito a coronare il suo sogno: dare senso e valore ai
suoi scatti fotografici, magari inserirli in una raccolta. Mentre le diceva
queste cose le teneva le mani.
Qualche
giorno prima, con la complicità di Rosina, Antonietta era riuscita a vedere da
sola Walter, il quale aveva portato con sé la sua Zenith Bencini Comet II e le
aveva fatto alcune foto, immortalando la sua corsa contro il vento.
In
quell’occasione tra i due non c’era stato alcun contatto fisico, adesso per
la prima volta lui le teneva le mani ed era incredibile l’effetto procurato al
cuore di Antonietta.
Quel
contatto le trasmetteva infinte scariche elettriche che rischiavano di
procurarle un piacevole infarto. Poi Walter la prese per i fianchi e la attirò
a sé.
Un
bacio, tenero e passionale insieme, li tenne incollati per un periodo
indefinibile che ad Antonietta sembrò darle il tempo di fare il giro del mondo
e visitare quei posti sconosciuti che sapeva già non avrebbe mai visto.
Antonietta
si spogliò di ogni remora, di ogni etichetta impostale da un vivere in società
che da sempre le stava stretto e sentiva che avrebbe fatto tutto quello che lui
le avrebbe chiesto di fare.
–
Vieni con me – le sussurrò Walter dandole per la prima volta del tu.
Antonietta
rimase con le parole sospese in aria. Davvero avrebbe fatto tutto quello che lui
le avrebbe chiesto?
–
Sarai il mio alito di vento ispiratore. – Continuò Walter divertito – Anzi,
intitolerò proprio così la mia raccolta “Aliti di vento” – disse
disegnando con le mani un semicerchio che rimase a galleggiare in quella’aria
della notte che cominciava a farsi pungente.
Antonietta
non riuscì a rispondere, non riuscì nemmeno a dire che l’indomani mattina
sarebbe rientrata a Milano e che la paura della sua proposta la terrorizzava a
tal punto da inchiodarla in un silenzio assordante. I suoi non glielo avrebbero
mai permesso. Che cosa avrebbe detto la gente. Sua madre ne sarebbe morta.
Negli
anni successivi Antonietta ripensò spesso a quelle notti libere e magiche,
durante le quali aveva creduto di essere forte e libera dalle convenzioni
sociali alle quali nel suo piccolo voleva ribellarsi, ma di fatto ne era stata
assorbita come tante altre donne negli anni cinquanta.
Aveva
sposato l’uomo che i suoi genitori avevano scelto per lei, un uomo che le
aveva garantito una vita piena di agi, che le aveva dato tanto affetto ma non
l’amore e la passione e quel pizzico di avventura che l’avrebbe salvata
dalla banale quotidianità.
A
diciassette anni Antonietta non aveva avuto il coraggio di affrontare quella
vita che più di ogni altra sarebbe stata adatta a lei.
Giada
ascoltò il racconto della nonna in silenzio e con attenzione. Non sapeva se
crederle davvero, infondo la nonna le raccontava storielle da quand’era
bambina. In più di un’occasione le aveva fatto credere che molti fatti ed
eventi che riguardavano la vita degli altri o la propria, erano veri. A lei
piaceva scherzare e a volte prendersi gioco degli altri, come le sue finte
recite da moribonda.
Giada
quindi, durante il racconto, aveva annuito spesso con convinzione lasciandole
credere che stesse seguendo con interesse la sua storiella.
Nel
frattempo Olga si era destata dalla pennichella e aveva ripreso a lavorare
all’uncinetto. Un’infermiera affacciò la testa dentro la stanza e in
direzione di Giada urlò:
–
L’ora delle visite è finita!
Giada
si alzò, recuperò la borsa che prima aveva lasciato ai piedi del letto, diede
un bacio alla nonna e la strinse forte.
–
Grazie, nonna. Sai sempre emozionarmi con i tuoi racconti.
–
E’ la vita, tesoro mio. Non lasciare che niente e nessuno la gestisca se tu
non vuoi.
Giada
lasciò la stanza e Antonietta si sdraiò sul letto, felice di aver ricordato
una fetta della propria vita, forse la più squisita. Quell’amore rapido e
intenso, delicato e travolgente, lei non aveva avuto il coraggio di viverlo, lo
stesso però l’aveva accompagnata nel corso degli anni, grazie al ricordo
delle forti emozioni provate.
Quella
stessa notte Antonietta con gli occhi socchiusi avvertì di nuovo quell’alito
di vento che tanti anni primi aveva accarezzato il suo volto contro quello di
Walter: quell’alito di vento era
venuto a prenderla per portarla via e ridarle la possibilità di vivere quella
vita mancata, stavolta per sempre.
La
porta d’ingresso era spalancata, Giada entrò in punta di piedi, come se la
nonna fosse ancora lì sulla sua poltrona a fare un riposino. Sentì la voce
della zia Elsa provenire dalla stanza da letto.
–
Tua madre e la mania di conservare tutto… - disse rivolgendosi allo zio Franco
mentre lasciava cadere sulla poltrona un mucchio di scialli e foulard.
Giada
sbirciò dentro la camera con gli occhi ancora rossi per il pianto. Tra quegli
scialli uno di colore giallo spiccava per la lucentezza della stoffa, ancora
intatta nonostante gli anni trascorsi.
Giada
provò un moto di ribellione nel vedere come ignobili mani si avventavano su
quello che era appartenuto alla nonna, sui suoi ricordi, su ciò che lei era
stata.
Quale
diritto avevano loro di frugare tra le sue cose. Un atto di sciacallaggio si
stava compiendo sotto i suoi occhi.
In
cucina, suo padre raccoglieva in un sacchetto di carta tutte le medicine,
frugando in ogni sportello e in ogni cassetto. Sua madre in salotto si muoveva a
scatti, dava l’impressione di non sapere dove mettere le mani. Se fossero
entrati dei ladri, sarebbero stati più organizzati.
Giada
sbirciò dentro ogni singola camera, compresa quella in cui la nonna rimasta
vedova aveva trasferito tutte le sue cose. Lì ancora nessuno aveva pensato di
curiosare o cercare chissà che cosa.
Giada
entrò e rimase immobile, in piedi dinanzi al comò.
Si
guardò allo specchio: notò come alcuni tratti del suo viso ricordavano quelli
della nonna. Asciugò una lacrima che nel frattempo le era scivolata giù, poi
cominciò a fare quello che gli altri stavano facendo di là, ma solo con più
rispetto.
Aprì
un cassetto del comò e infilò le mani dentro con l’intenzione di riavere un
contatto con la nonna Antonietta.
Con
gli occhi chiusi affondò le mani nella sua biancheria avvertendone la
morbidezza, poi penetrando più a fondo qualcosa di duro e di freddo s’impose
al suo tatto.
Aprì
gli occhi e tirò fuori una scatola di legno piatta e larga. Forzò appena
facendo una pressione sui lati e questa si aprì mostrandone il contenuto.
Su
una copertina marrone spiccava un’incisione: Wind
breathes (Aliti di vento) raccolta
fotografica di Walter Rossi New York 1965.
Giada
lesse la dedica scritta a penna sulla prima pagina: Ad
Antonietta, l’unico alito di vento che ho catturato, ma non sono riuscito a
fare mio.
Lo
stupore e la curiosità presero il sopravvento e Giada cominciò a sfogliare le
pagine di quel libro: delle foto in bianco e nero mostravano le mani di un bimbo
strette a cucchiaio mentre davano libertà a un uccellino, gli spruzzi di
schiuma salata che galleggiavano nell’aria mentre un’onda si ritraeva, le
foglie aride e accartocciate sospese nella scia di
un vento autunnale.
Giada
divorò quelle pagine lasciandosi trasportare da un dolce consenso. Poi arrivò
lei: sua nonna immobile in una libera corsa sulla spiaggia. Le sue giovani gambe
s’intravedevano nude sotto la gonna sollevata dal vento, i suoi capelli
sciolti seguivano la direzione della brezza e una mano teneva un foulard
rigonfio come una vela.
Mai
sua nonna le era parsa più bella. Il suo sorriso ragazzino sprizzava
un’immensa gioia.
Le
sarebbe tanto piaciuto sapere come sua nonna fosse entrata in possesso di quella
pubblicazione, se suo nonno sapeva dell’esistenza di quella foto, oppure no,
infondo, però saperlo avrebbe solo soddisfatto una sua curiosità, quello che
invece contava per lei in quel momento, era ciò che la nonna aveva voluto
comunicarle il giorno in cui le aveva raccontato la sua estate del 1953.
Giada
ripose la raccolta fotografica di Walter dentro la scatola di legno, la chiuse e
la prese in mano. Uscì dalla camera senza che nessuno si accorgesse della sua
presenza. Mentre lasciava la casa della nonna, sentì la zia Elsa balbettare con
la sua voce stridula:
-
Quella vecchiaccia, come ha
potuto…come ha potuto dare tutto in beneficenza! – disse mentre si lasciava
cadere su una poltrona reggendo in mano le ultime volontà di Antonietta.
Giada
sorrise al pensiero che la nonna di sicuro si stava divertendo quanto lei da
lassù vedendo quella scena.
Mentre
Giada scendeva le scale, sentì il peso, che da mesi la opprimeva, cominciare ad
allentarsi. Quando Giada fu in
strada sapeva già cosa fare: non avrebbe permesso più a nessuno di gestire la
sua vita, di imporle scelte e farla vivere nel rimpianto. Avrebbe seguito il suo
cuore, e un mondo a fumetti di mille colori e chiaroscuri le stava già venendo
incontro.
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