Cara K.,
comincio a scriverti nella pagina del 9 febbraio che cade più o meno nel
periodo in cui abbiamo cominciato a frequentarci nella nostra vita precedente.
Per la data
precisa, se sarà il caso, verrò a chiedere a te che con la tua agenda riesci a
essere molto più precisa e puntuale del sottoscritto. Ti scrivo soprattutto per
darti soddisfazione perché sei convinta che io sia uno scrittore e pur di darti
ragione mi sono seduto al tavolo della tua cucina a battere sulla tastiera del
computer.
Io a dire
il vero sono “uno che scrive” allo stesso modo in cui tu sei “una a cui
piace ascoltare e parlare” e altre persone hanno la passione di guardare il
cielo di giorno o di notte, ma questi sono altri discorsi.
In fin dei
conti è vero, io scrivo e tu guardi ma non capisci.
Non riesci
a spiegarti come questa mattina in cui si festeggia la Liberazione -che tu sei
uscita presto per andare a preparare i tavoli per la grigliata organizzata dalla
sezione D.S. di Casale e mi hai lasciato il volantino con le istruzioni per
arrivare in “Restera”- rientrando tu abbia trovato proprio me seduto al
tavolo della cucina e cosa ci faccia all’improvviso qui nella tua vita.
Ad essere
sincero ci sono alcune cose che anch’io non capisco. Non capisco se sono io
quel bel ragazzo in piazza a Marrakech, sfuocato dalla tua autofocus, in piedi
con la folla dietro: la folla e il rumore di centomila voci incomprensibili che
ti inseguono, il fumo, il the alla menta che adesso avrei voglia di bere in uno
di quei bicchieri di vetro colorato che non ho portato a casa come souvenir.
Loro, il the, il bicchiere, la menta, la sedia di ferro del “Restaurant
Patisserie Glacier Sandwich” e il sole che passa tra le nuvole più in là, i
turisti sopra le terrazze.
A me,
l’hai capito, non è mai piaciuto fare il turista, preferisco mescolarmi alla
gente, fermarmi davanti alla bottega del barbiere, a quella dell’uomo che
scrive le lettere, a guardare gli occhi della donna che, seduta a terra con uno
straccio, vende i limoni nei vicoli stretti del mercato, il banco del pesce,
quello della carne, i vasi pieni di spezie e di olive.
A mio
figlio è piaciuta la foto con le olive, entrambi ne andiamo matti: sai bene
anche tu che ho la pessima abitudine di riempirmene la bocca girando in cucina,
cercando di prepararti qualcosa da mangiare: le olive, i pomodori secchi, i
limoni a spicchi, quelli grossi come cedri, tolti dalle piante che sono state di
mio nonno e che adesso sono incarico mio.
Anche
questo inverno le ho portate dentro, nella stalla e guardando da fuori
attraverso il vetro della finestra mi sono rivisto seduto al tavolo della tua
cucina come quella mattina di primavera in cui mi lasciasti a casa perché avevi
da fare per il partito, poi, con gli occhi della memoria, ho fatto un balzo
indietro e ho avuto la certezza che le piante dei limoni sopravvivranno anche al
prossimo secolo, ne sono convinto.
Alla faccia
della nostra Marrakech e delle sue olive, di noi e del tuo partito, nemmeno
quello esisterà più, credo.
Durano di
più le nostre foto, ormai.
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