Nicola Maguolo
Nicola Maguolo

Cara K.

 

        racconti

Cara K., comincio a scriverti nella pagina del 9 febbraio che cade più o meno nel periodo in cui abbiamo cominciato a frequentarci nella nostra vita precedente.

 

Per la data precisa, se sarà il caso, verrò a chiedere a te che con la tua agenda riesci a essere molto più precisa e puntuale del sottoscritto. Ti scrivo soprattutto per darti soddisfazione perché sei convinta che io sia uno scrittore e pur di darti ragione mi sono seduto al tavolo della tua cucina a battere sulla tastiera del computer.

Io a dire il vero sono “uno che scrive” allo stesso modo in cui tu sei “una a cui piace ascoltare e parlare” e altre persone hanno la passione di guardare il cielo di giorno o di notte, ma questi sono altri discorsi.

In fin dei conti è vero, io scrivo e tu guardi ma non capisci.

Non riesci a spiegarti come questa mattina in cui si festeggia la Liberazione -che tu sei uscita presto per andare a preparare i tavoli per la grigliata organizzata dalla sezione D.S. di Casale e mi hai lasciato il volantino con le istruzioni per arrivare in “Restera”- rientrando tu abbia trovato proprio me seduto al tavolo della cucina e cosa ci faccia all’improvviso qui nella tua vita.

 

Ad essere sincero ci sono alcune cose che anch’io non capisco. Non capisco se sono io quel bel ragazzo in piazza a Marrakech, sfuocato dalla tua autofocus, in piedi con la folla dietro: la folla e il rumore di centomila voci incomprensibili che ti inseguono, il fumo, il the alla menta che adesso avrei voglia di bere in uno di quei bicchieri di vetro colorato che non ho portato a casa come souvenir. Loro, il the, il bicchiere, la menta, la sedia di ferro del “Restaurant Patisserie Glacier Sandwich” e il sole che passa tra le nuvole più in là, i turisti sopra le terrazze.

A me, l’hai capito, non è mai piaciuto fare il turista, preferisco mescolarmi alla gente, fermarmi davanti alla bottega del barbiere, a quella dell’uomo che scrive le lettere, a guardare gli occhi della donna che, seduta a terra con uno straccio, vende i limoni nei vicoli stretti del mercato, il banco del pesce, quello della carne, i vasi pieni di spezie e di olive.  

A mio figlio è piaciuta la foto con le olive, entrambi ne andiamo matti: sai bene anche tu che ho la pessima abitudine di riempirmene la bocca girando in cucina, cercando di prepararti qualcosa da mangiare: le olive, i pomodori secchi, i limoni a spicchi, quelli grossi come cedri, tolti dalle piante che sono state di mio nonno e che adesso sono incarico mio.  

Anche questo inverno le ho portate dentro, nella stalla e guardando da fuori attraverso il vetro della finestra mi sono rivisto seduto al tavolo della tua cucina come quella mattina di primavera in cui mi lasciasti a casa perché avevi da fare per il partito, poi, con gli occhi della memoria, ho fatto un balzo indietro e ho avuto la certezza che le piante dei limoni sopravvivranno anche al prossimo secolo, ne sono convinto.

Alla faccia della nostra Marrakech e delle sue olive, di noi e del tuo partito, nemmeno quello esisterà più, credo.

Durano di più le nostre foto, ormai.