I
Colonna
sonora:
Ad
Ogni Costo - Vasco Rossi (Ad Ogni Costo, EMI
- 2009)
Immagine
sfocata, si avvicina e si allontana come quando tenti di infilare un ago da
ubriaco. Clack. Una linea curva, lucida, cattura un riflesso e lo rimanda
ammiccando. Clack. Zoom a ritroso, la curva diventa una mezzaluna poi un tondo.
Clackclackclack in rapida successione.
André
si stacca con uno scatto dall’obiettivo della Nikon DX3 stropicciandosi gli
occhi. Marta solleva lo sguardo dall’esposimetro e lo guarda perplessa. Le
rende un’occhiata frastornata.
“Cinque
minuti di pausa”.
“Come
se ti stessi ammazzando di lavoro - bofonchia lei raggiungendo il pacchetto di
sigarette - vado affùma” aggiunge ad alta voce mentre imbocca l’uscita del
terrazzino.
André
si avvicina al set, le luci forti lo fanno sudare. Ha sempre sudato molto, un
problema in questo lavoro quando passi il tempo a detergerti la fronte. Si
protende verso l’oggetto illuminato come per guardarlo meglio. La sua testa
cespugliosa getta un alone d’ombra sulla macchina da caffè del catalogo Arredo con Aroma.
“Sono stanco”.
Una
stanchezza che appesantisce i ricordi, si insinua in testa come un ronzio,
riapre vecchie ferite e si traduce nella solita domanda: Come
cazzo sono finito a fare questo? La mano sale nuovamente a massaggiare la
faccia. Uno sguardo di sufficienza alle volute di fumo che si intravedono oltre
i vetri della porta-finestra, il solito fastidioso sbroffo di risa e sa di non
poterne più: parte deciso a richiamarla al lavoro, basta con le cazzate, c’è
un catalogo da finire. Marta rientra infastidita da quell’inusuale esercizio
di autorità. Si rimettono all’opera ognuno nel suo broncio, freddi gesti
meccanici sino all’ultimo scatto e poi via senza salutarsi.
II
Colonna
sonora:
Misery
Machine - Marilyn Manson (Portrait of an American Family, Nothing
Records - 1994)
La
pelle della giacca cigola mentre la infila. Gesti lenti, accurati, rituali. Il
profumo, il tatto… Chiude le cerniere, assicura la cintura. Guarda il casco,
infastidito. Lo indossa, fa scattare il sottogola, infila i RayBan a goccia. Poi
ci ripensa, è tardi, c’è ancora luce ma non dà fastidio. Li sfila e li
ripone nella custodia della sella. Inforca la sua Softail appena uscita dalla
fabbrica e accende il motore. Lo lascia ronfare al minimo mentre calza i guanti.
Una calcagnata al cavalletto e parte con una leggera accelerata. La potente moto
risponde docile in attesa che le permetta di scatenarsi.
La
provinciale è poco trafficata, corre lungo campi aperti e incolti, separati da
profondi canali. In lontananza il bosco accompagna il naturale declivio delle
alture circostanti, infittendosi verso la loro sommità. L’unico rumore in
quello scenario sfuocato viene dal motore e dalle gomme, che inghiottono
l’asfalto con un mantra sommesso e continuo, ipnotico quanto la linea di
mezzeria, spezzata sul lungo rettilineo. Il cono di luce focalizza lo sguardo su
quella pellicola di bianchi e di neri, che si riavvolge nel nulla dietro di lui.
Un
attimo e il tratteggio diventa una doppia linea continua. Le braccia hanno uno
scarto minimo sul manubrio, la ruota davanti sobbalza. La curva. Per il corpo è
automatico seguire la piega della moto. La lucidità ritorna in un istante,
imposta il contrappeso per la seconda curva della ‘s’. Si riappropria della
fisicità del mezzo che stringe tra le gambe e scala per poter uscire dalla
curva in accelerazione. Lo sguardo, che sale seguendo il nuovo assetto, viene
avvinto da un tremolio dell’aria che si trasforma in uno strappo a un metro
dal suolo.
III
Colonna
sonora:
Ulysses
– Franz Ferdinand (Tonight: Franz Ferdinand, Domino
Records – Epic -2009)
…
e poi via senza salutarsi.
Sulla
via del ritorno, come ogni sera sul sedile posteriore del solito taxi, seduto a
destra. Il finestrino abbassato di un paio di centimetri. Il tassista guida in
silenzio, lungo la via principale e poi per vicoli sempre più stretti. Le ruote
slittano sull’acciottolato bagnato quando la vettura bianca si ferma davanti
alla grande cancellata. Una manciata di banconote e il portoncino sbatte alle
sue spalle. Pochi passi e il cortile lo aggredisce con le sue linee irregolari
che quasi lo spingono a scendere le ripide scale che portano al seminterrato. Un
tintinnio di chiavi e André può finalmente chiudere fuori un’altra giornata.
Mentre
tenta di sfilarsi maldestramente il cappotto dalle spalle, i Joy Division lo
fanno sussultare: tenendo la ventiquattrore per la maniglia, in bilico su un
ginocchio, fa scattare le sicure e infila la mano alla ricerca del cellulare. Al
terzo tentativo sfiora lo scatolotto vibrante ma la valigetta si spalanca
sparpagliando ovunque il suo contenuto. Le carte svolazzano, il telefono cade e
schizza sotto il comò, continuando a strillare la sua musichetta. Scaraventata
la borsa lungo le piastrelle di marmo si getta carponi e allunga la mano sotto
il mobile. Il telefono continua a suonare. Spazzando alla sua ricerca,
inavvertitamente lo colpisce e lo allontana. Il telefono suona. Impacciato dal
cappotto, si mette in ginocchio, lo sfila con stizza e lo manda a seguire la
cartella. Si china nuovamente a cercare la luce blu, appoggiando una guancia al
pavimento freddo… Lo vede, lo afferra, smette di suonare.
“Fanculo,
numero privato”.
Uno
sguardo desolato al casino del corridoio, calpesta fogli, foto, persino
l’impermeabile e si tuffa in cucina, assalendo il frigorifero. Peperonata
fredda con tanto di aureola di grasso coagulato, wurstel crudi, appena usciti
dal pacchetto, cacciati giù con foga, quasi rabbia. Innaffia il tutto con della
birra calda. Placata la fame isterica si abbandona sulla sedia di fòrmica,
massaggiandosi il ventre teso. Rutta sommessamente.
Stanco,
si spoglia mentre si dirige nel bagno, lasciando una scia di indumenti sudati.
La doccia è bollente sulla sua pelle, la lascia scorrere a capo chino per
interi minuti sino a che chiude il rubinetto, senza rendersene quasi conto. I
piedi gocciolano sul pavimento, il bagno è saturo del vapore. Si appoggia allo
specchio sopra il lavabo e disegna un arco con il palmo della mano. Caldo.
Troppo caldo, ora. Accosta la finestra, indossa un pigiama a righe e se ne va a
dormire. Nel profondo del sonno, quando il rem è ormai solo un sogno…
IV
Colonna
sonora:
Basket
Case - Greenday (Dookie, Reprise Records
- 1994)
La
radiosveglia suona. Anzi, no… urla. Parte una manata per spegnerla, la centra,
cade ma non smette. È il cellulare. André si alza, il viso pesto, i capelli
sparati. Poche parole, un indirizzo, un orario e acchiappa la borsa con la sua
nuovissima Nikon F90, si precipita in strada, sale in macchina e corre, per
quanto il suo scassone glielo permetta, sul luogo dell’incidente, una strada
statale in mezzo al nulla dalle parti del Bosco Vecchio.
La
scena che si presenta è normale amministrazione: un motociclista ha fatto un
dritto e si è infilato sotto un camion. Anzi, no… questo qua è stato più
creativo, si è infilato DENTRO il camion, parte integrante del radiatore, a
occhio e croce. Accosta al primo slargo disponibile, costellato da copertoni,
rifiuti, la tazza di un cesso su cui qualche buontempone ha scritto ‘re del
mondo’, un frigorifero.
Scende,
si presenta al comandante in capo, sventolando la macchina fotografica in una
mano e il tesserino di riconoscimento nell’altra. Un’occhiata alla Softail -
bella bestia - e poi il suo zoom inquadra già la scena: quadro di insieme, la
moto stranamente in piedi, parcheggiata come una bicicletta, il camion
leggermente in diagonale sulla carreggiata, clack; particolare moto
accartocciata, forcella incurvata e
cerchione deformato. Clack. Alza lo sguardo dubbioso verso il tornante e segue
l’ipotetica traiettoria della moto. Torna a osservare il camion, poi
nuovamente la forcella. Scuote la testa. Tratto di asfalto tra la moto e il
camion, clack. Inquadra l’intero camion, il corpo a tutto schermo, mezzobusto,
primo piano della testa. Clackclackclackclack… Mentre varia l’inquadratura,
il casco rivela lentamente una curva. Clack. Una mezzaluna. Clack. Poi il tondo
del logo del camion.
V
Colonna
sonora:
Misery
Machine - Marilyn Manson (Portrait of an American Family, Nothing Records - 1994)
Lo
sguardo, che sale seguendo il nuovo assetto, viene avvinto da un tremolio
dell’aria che si trasforma in uno strappo a un metro dal suolo.
La
cosa gli piomba di fronte come un sacco scaricato dalla ribalta di un cassone.
Arrotolato sopra di essa quello che sembra un grosso e tozzo serpente.
L’impatto della ruota gli fa picchiare il manubrio tra i testicoli prima di
rendersi conto che è lui che sta volando in avanti in una improbabile
imitazione di Superman. L’ultima cosa che vede il motociclista sono delle
fauci spalancate che fanno da scudo a uno sguardo atterrito e intelligente.
L’inerzia
e l’istinto fanno il resto: i denti ricurvi dello strano essere si impiantano
profondi nel casco e nella mandibola del centauro che lo trascina con sé contro
il muro di metallo proveniente dall’opposto senso di marcia. L’altra
creatura, assolutamente incolume, continua a scivolare sulla strada sino a
raggiungere uno squarcio gemello a quello da cui è arrivata. Lasciandosi cadere
dentro, scompare. E il varco dietro di lei.
VI
Colonna
sonora:
Hang
Up - Madonna (Celebration, Warner Bros
- 2009)
André
si sveglia. Occhi pesti, sapore terribile in bocca.
“Ho
bevuto ieri sera?”
No…
Un rutto acido gli rammenta la cena fredda da frigor e lo stomaco si rovescia.
Si trascina in cucina osservando perplesso la devastazione del corridoio. Caffè.
Tipo scritta lampeggiante al neon. Bisogno
Primario. Non ha voglia di aspettare, o forse non ce la fa: prende una tazza
dal lavello, la sciacqua in qualche modo, la riempie e sbatte tutto nel
microonde. Due minuti scarsi. Quelli li può aspettare: giusto il tempo di
recuperare il caffè solubile e lo zucchero e il bipbipbip del forno lo avvisa
che l’acqua sta bollendo. Si scotta con il manico della tazza in ceramica e ne
rovescia una buona parte sulle piastrelle. Dalla finestra socchiusa entra un
refolo di vento che agita la tenda. Il suo sguardo al rallentatore: mentre alza
la testa i suoi occhi catturano il movimento sinuoso del tessuto e
BANG.
Una fucilata di consapevolezza.
VII
Colonna
sonora:
Hotel
California - Eagles (Hotel California, Asylum
Records - evergreen)
L’André
fotografo di cataloghi in pigiama e piedi nudi si sovrappone all’André di tre
lustri più giovane, fotografo della polizia. Entrambi osservano, le braccia
abbandonate lungo i fianchi, la bocca aperta come un bambino al circo, lo strano
tremolio che si apre in uno squarcio davanti al camion. L’Essere, intrappolato
sotto il casco del motociclista, sembra sciogliersi, lasciando dietro di sé
soltanto due lunghi denti ricurvi, dileguandosi all’interno dello strappo che
pulsa ancora un paio di battiti e poi si chiude su se stesso.
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