Francesca Panzacchi
Francesca Panzacchi

La fotografia

 

        racconti

Le 8.15. Sono in ritardo. Ho quasi finito di truccarmi, l’ultimo tocco di mascara e sono pronta. Tailleur nero attillato, scarpe a punta. Mi guardo allo specchio e mi piaccio. Mia madre dice che vesto come una segretaria, magari ha ragione. Mi raccolgo i capelli. Forse però mi stanno meglio sciolti. No, meglio raccolti. Afferro borsa e cappotto e in un attimo sono fuori. Prendo l’autobus al volo e accendo il cellulare. Sette messaggi, quattro della stessa persona. Detesto gli uomini che non capiscono quando una storia è finita. Diventano patetici, mi costringono a diventare crudele. L’ultimo messaggio è del mio capo… dice semplicemente “Dove sei?” Mentre elaboro mentalmente la scusa più plausibile è già tempo di scendere. La redazione è in pieno centro storico, dalla fermata ci sono almeno sette minuti di strada a piedi e con questi tacchi non è piacevole. Entro nel vecchio ascensore, chiudo a mano il cancello. Non appena varco la soglia il caporedattore mi ordina: “Nel mio ufficio, subito”. Mi sfilo il cappotto e lo seguo. Chiudo la porta alle mie spalle e sfodero uno dei miei migliori sorrisi.Dentro l’ufficio c’è un ragazzo sui venticinque anni che mi scruta con aria di sfida.Cogliendo il mio sguardo interrogativo il capo mi svela che dovrò condividere con lui il mio prossimo lavoro, un reportage della mostra d’arte di Turner a Ferrara. Ci presentiamo velocemente, lui sorride appena.

Il capo ci da’ le ultime coordinate e poi ci congeda.

Non è insolito che io debba spostarmi per lavoro ma avrei preferito che mi fosse affiancata una persona che conosco.

L’appuntamento è per domattina alle otto in punto davanti alla redazione.

Apro gli occhi prima che la sveglia inizi a squillare, un attimo dopo sono già sotto alla doccia.

Ho tutto il tempo per fare colazione con calma. Indosso una camicia a righe sottili, jeans e giacca casual. Mi trucco il viso in modo leggero, prendo l’apparecchiatura fotografica e scendo a fare colazione. Cornetto dolce vuoto e cappuccino addolcito con zucchero di canna, il modo migliore per iniziare una lunga giornata.

Arrivo davanti alla redazione con quasi dieci minuti d’anticipo. Lui è già là. Detesto quelli che arrivano in anticipo più ancora di quelli che arrivano sistematicamente in ritardo.

Indossa un cappotto antracite e una sciarpa azzurra, giocherella con le chiavi dell’auto.

“Ciao, sono appena arrivato, avrei giurato che saresti arrivata in ritardo” mi dice sfoderando un sorrisetto ironico.

“Io sono sempre puntualissima” mento senza ritegno.

Ci scambiamo uno sguardo di sfida e ci incamminiamo verso la sua auto.

“Perché hai deciso di fare la fotografa?” mi chiede senza voltarsi.

“Perché fotografare è il mio modo di appropriarmi della realtà, di trattenere le cose che amo per non farle svanire. E poi pagano bene…”

Ride, divertito.

La macchina va via veloce fendendo una nebbiolina leggera.

“Se tutto va bene per le 21 rientriamo” mi dice con aria indifferente

“Spero anche prima…stasera ho voglia di uscire” replico io mentre sfoglio il dépliant della mostra.

Non c’è traffico per fortuna, tra meno di dieci minuti saremo arrivati.

“Ma a te piace Turner?” gli domando curiosa.

“Mi piace. Non sono un esperto d’arte, ma mi emoziona.”

“Emoziona anche me” gli confido buttando lo sguardo fuori dal finestrino.

“Amo Ferrara, forse è qui che vorrei vivere” mi confessa quasi sottovoce mentre parcheggia.

“E’ una città bellissima, soprattutto quando è avvolta da un leggero velo di nebbia…” gli rispondo con aria sognante.

“Andiamo” dice scendendo dall’auto “abbiamo un lavoro da fare”.

Mi piace fotografare quadri e opere d’arte, è quasi come fondersi con esse. Scatto studiando con attenzione ogni inquadratura. Mi muovo lentamente lungo le stanze indugiando su ciò che più mi colpisce.

All’improvviso me lo trovo davanti. Sta fissando un paesaggio dalle tinte pastello. Annota qualcosa sul suo taccuino e poi rivolge di nuovo lo sguardo in direzione del quadro. Mi avvicino, solo qualche passo. Lo inquadro. Uno scatto. Due scatti. Ha un profilo perfetto. Un altro scatto. Ha il viso più bello che io abbia mai fotografato. Un altro click. Lui si gira verso di me: “Ma che stai facendo?” Mi chiede sorpreso ma intanto sorride di nuovo.

Continuo a scattare, ora lui sembra divertito, i suoi occhi cercano i miei, con insistenza.

E' come se fossimo soli all'interno di una stanza spoglia e ci muovessimo sospinti dal vento.

Mi si avvicina, piano e ad ogni scatto lo spazio che ci divide si accorcia.

Ora siamo ad un passo l’uno dall’altra. Immobili, occhi negli occhi.

“Ah se il capo non mi avesse fatto quel discorsetto….” mi dice in un sussurro.

L’incanto si rompe. Io interdetta gli chiedo a cosa si riferisca.

“Io non lo so cosa ci sia tra di voi, ma lui mi ha detto chiaramente di starti lontano.”

“Non c’è niente fra di noi. Niente.” gli rispondo con sincerità.

“E’ evidente comunque che lui ha messo gli occhi su di te” mi dice alzando le spalle.

Sono un po’ sorpresa da quelle parole, sono confusa dalla situazione in cui mi trovo e stordita dalle sensazioni nuove ed impreviste che mi attraversano.

“Qui abbiamo finito” gli dico mentre lo prendo per mano.

Ci dirigiamo verso l’uscita senza parlare.

Una volta fuori ci avviciniamo di nuovo. Adesso però siamo soli, non più al centro di una stanza piena di gente sconosciuta. Soltanto io e lui e questa nebbia che sale. In sottofondo il rumore della strada, di macchine che sfrecciano troppo veloci. E’ a un centimetro dalle mie labbra, forse mi bacerà. Avverto il suo respiro sul viso, annego nei suoi bellissimi occhi. Restiamo così per un po’, non so dire per quanto. Poi lui si ritrae, ma continua a guardarmi. Saliamo in macchina, senza dire una parola. Mette lo stereo a tutto volume, fissa la strada con occhi immobili. Ho la testa che mi scoppia, ho bisogno di restare sola.

Arriviamo a Bologna alle 19, molto prima del previsto. “Ti lascio in redazione o vuoi che ti porti a casa?” mi chiede con la sua voce gentile

“In redazione va benissimo, devo salire un attimo prima che chiudano”

Parcheggia davanti all’ingresso e poi finalmente mi guarda di nuovo negli occhi

“Ti aspetto?”

“Sì, torno subito!”

Le luci sono ancora accese ma a quest’ora sono andati via quasi tutti. C’è solo il capo, con gli occhiali sulla testa e la cravatta allentata. E’ sorpreso nel vedermi ritornare così presto. Ci salutiamo senza parlare, solo con un sorriso.

Non riesco più a guardarlo nello stesso modo. Lui si accorge che qualcosa è cambiato. Viene verso di me, lentamente, una mia mano è sulla maniglia, una sulla chiave della porta, ho poco tempo per decidere cosa sarà di me, prima che lui sia troppo vicino, prima che...