-
Quanto peserà? – si chiede il giovane, gli
occhi sull’immagine di una macchina fotografica datata 1850, sul monitor del
suo computer. Per la risposta gli
basta far scorrere la pagina: - Trenta chili, non poco - dice tra sé e pensa al signor Roger Fenton che trasporta quei trenta
chili sui campi di battaglia in Crimea.
Crimea.
Il
giovane muove rapide le dita sulla tastiera, cambio immagine: google
earth, fantastico, in un attimo sei in Crimea;
cioè, non Crimea, oggi fa parte dell’Ucraina, ma nel 1853 si chiamava Crimea
e fu teatro, appunto, di una guerra.
Guerra
di Crimea.
Wikipedia,
ecco la schermata: guerra di Crimea, Russia zarista da una parte e dall’altra
gli alleati: Gran Bretagna, Francia, Impero Ottomano e il regno di Sardegna.
Non
è quello che il giovane sta cercando: la notizia che cerca - sta digitando
veloce come digitano i giovani, il cervello sulla punta delle dita -
ecco ci siamo, la notizia che cerca l’ha
trovata: può appoggiarsi allo schienale e godersi la lettura. La notizia
è questa, e cioè che “il governo
britannico assieme a migliaia di uomini manda in guerra
la macchina fotografica”.
-
Giovanissima, e già in guerra
- pensa il giovane; appoggiato
allo schienale, le braccia conserte, si mordicchia il labbro, è il suo
modo di essere concentrato; è concentrato su un pensiero: la
guerra era, e continua a essere, la più irresistibile e intrigante delle
notizie, assieme allo sport.
La
guerra di Crimea non faceva solo
notizia: era “scandalo”. Il Times di
Londra aveva attaccato il comando militare per la sua incompetenza, mettendo in
crisi il governo. I generali non l’avevano presa bene.
Il giovane si immagina i
generali: nella sua testa sono un po’ da operetta,
sopra le righe, tutti con la schiena dritta che battono il pugno pesante
sul tavolo del quartier generale dove è stesa la mappa di Crimea;
in quel caso, sulla mappa, c’è il citato Times.
Ma
il governo inglese ha una geniale trovata che ristabilirà la verità dei fatti
in modo obiettivo, è il caso di dirlo. Il governo inglese arruola la macchina
fotografica, per offrire a tutti – specialmente all’opinione pubblica scossa
- una visione più positiva. E manda
in Crimea il fotografo Roger Fenton.
Il
giovane guarda la foto di Roger Fenton sullo schermo; la salva in un file,
assieme alle altre che metterà
nel suo articolo.
Vede
tutta la scena: Roger Fenton arriva in Crimea con la sua macchina; la posa -
sono ben trenta chili; rilegge
gli ordini: “non fotografare i morti, i
mutilati, i malati”. E allora che posso fare? - pensa Fenton -
Mi butto nella mischia, nell’azione… sì, con questi trenta chili? E
chi convince quelli a stare fermi in posa per
il tempo di esposizione che mi serve?
E
Roger Fenton ha un’idea - il giovane continua a immaginarsi la scena -
Fenton piazza un po’ di sedie, chiama gli ufficiali, dice loro di
sistemarsi, spazzolare giacche e stivali, curarsi i baffi, sedersi e mettersi in
posa come indica lui, e soprattutto, soprattutto si raccomanda Fenton, stare
immobili per 15 secondi.
Il
giovane fa scorrere sul monitor le foto di Fenton, le guarda, le salva:
si vede benissimo che in quelle foto di guerra non c’è la guerra; o
meglio, è fuori dell’inquadratura. E sente la voce del
governo britannico, compostamente soddisfatto: -
Thanks God! Questa sì che è la guerra!
Quella?
Un club esclusivo e piacevole per
soli uomini.
-
Per le foto di guerra - si
dice il giovane - dobbiamo aspettare - digita rapido – dobbiamo aspettare Brady.
Ed
ecco la foto sul monitor: Mathew
Brady.
Mathew
Brady è il proprietario dello
studio fotografico di ritratti più noto d’America.
Il
giovane, appoggiato allo schienale, immagina di essere in quello studio. Vede
Mathew Brady dietro la sua macchina: Brady pulisce gli occhiali, li inforca, è
molto miope - non è il massimo per un
fotografo - pensa il giovane - ma
questo non gli impedisce di vedere
lontano – insomma, inforca gli occhiali e guarda il soggetto davanti a sé,
stagliato sullo sfondo bianco, illuminato perfettamente dalle lampade, fermo
immobile, in posa: il presidente Lincoln.
Brady
approfitta dei tempi di esposizione ancora molto lunghi e dell’immobilità del
soggetto per fargli una richiesta:
-
Signor Presidente, vorrei fotografare la
guerra - era la guerra civile americana – vorrei documentarla, no, non
si muova, fermo, vorrei fare
una specie di racconto della guerra. Fermo, ancora qualche secondo.
Ecco, ora si può muovere.
E
Lincoln, che era un altro che vedeva lontano, disse: - Ok.
Brady
non ebbe ordini come Fenton, né censure. Lui e i suoi fotografi scattano
centinaia e centinaia di fotografie della guerra civile americana, e per la
prima volta si vedono fotografati dei
morti in guerra.
Il
giovane fa scorrere le fotografie sul suo monitor; si ferma su quelle di
Gettysburg del 1863, ne salva alcune. La gente inorridiva davanti a quelle foto,
non perdonava a Brady di mostrare “orrendi dettagli”.
Ma
Brady rispondeva alle critiche: - E’
vero - diceva, - sono “orrendi
dettagli”, ma almeno che siano d’aiuto a evitare che un’altra calamità
del genere si abbatta sulla nazione!-
Il
giovane scuote la testa, si sente meno ingenuo di Brady, forse lo è:
- forse – si dice - per
quanto possiamo essere giovani – pensa ai suoi vent’anni –forse
a volte siamo più vecchi
dei nostri predecessori- si mordicchia il labbro e pensa che,
ovviamente, quelle foto non potevano piacere; da fotografo qual è, il giovane
sa che una foto, se vuoi che piaccia, se vuoi venderla, devi tener conto
che possa essere appesa in salotto e quelle non ce le puoi appendere.
Inoltre,
quelle foto, non fermarono le atrocità della guerra.
Brady
si indebitò fino al collo, per lui fu un’esperienza economicamente
disastrosa.
Ma
era nato il reportage di guerra.
Chiamata
skype. Chi lo vuole? Il giovane riduce a icona Brady, apre skype, videorisponde.
Sono guai: lo vede dalla faccia del caporedattore, per niente simpatica oggi. Il
giovane comincia scusandosi:
-
Mi spiace, non ho ancora
finito, mi manca poco.
-
Ma non devi scrivere un
romanzo, porca puttana! Te l’ho detto, sintetico. Meno parole,
meglio è. Foto, foto, foto. Foto di macchine fotografiche accanto a
corpi, corpi di donne. Fine.
-
Veramente avevo pensato di
dare all’articolo un taglio storico…
-
Storico?! E perché? Nessuno
conosce la storia.
-
Ti pare un buon motivo?
-
Ma porca puttana,
la rivista dobbiamo venderla, non archiviarla in biblioteca!
E spicciati.
-
Ok. Dammi ancora un giorno.
-
Domani devi consegnare. Non
mi fare pentire di averti…
-
No, anzi, ti ringrazio
dell’opportunità, ma fidati. Vedrai che…
-
Appunto, voglio vedere, non
leggere! Vedere! Ciao.
-
Ok. Ciao.
Termina
videochiamata. E scollega skype. E’ meglio.
Il
giovane si morde il labbro e molleggia velocemente la gamba destra: è il suo
modo di essere concentrato e di scaricare la tensione. La rivista fotografica,
la numero uno, senza dubbio – sono amici da anni, da quando quindicenne aveva
vinto il premio fotografo messo in palio dalla prestigiosa rivista – gli ha
chiesto un articolo, una relazione sulla macchina fotografica e lui
vorrebbe farla così come ha detto, con un taglio storico; pensa, anzi è
convinto, che l’occhio del fotografo debba posarsi non
già sul corpo di donne – non ha niente in contrario al corpo delle
donne, possibilmente belle, ma crede che quello possa e debba goderselo senza
filtri e, tra i vari sensi da usare, la sua modesta esperienza nel settore gli
fa decisamente preferire il tatto; il giovane ha una sua idea precisa sul lavoro
del fotografo: pensa che l’occhio
del fotografo debba far vedere il confine tra il
qui e l’altrove, anzi, la cesura tra il
qui e l’altrove: l’attimo fuggente.
Crede
che questo confine, questa cesura, si
manifesti con la morte violenta e che la guerra ne sia l’artefice più
rappresentativa.
-
La guerra è lo specifico del reporter - lo crede con tutta la convinzione
dei suoi vent’anni.
Prosegue
il suo lavoro, dov’era rimasto? Prima guerra mondiale.
Un
corso travolgente e accelerato di modernità – moderni
lo sono stati tutti, almeno per un po’, pensa il giovane; nei primi
decenni del novecento l’elettricità trasforma le notti in giorno, gli
esplosivi modificano il paesaggio e poi bengala, riflettori, grammofoni,
fotografia. E insieme alla fotografia arriva il cinematografo!
Ecco
la morte in azione, fissata in immagini, in fotogrammi. Ecco i corpi, non quelli
che vuole il caporedattore: corpi mutilati, ma le mutilazioni sono rimpiazzate
da pezzi artificiali, protesi, mandibole di ferro, nasi di caucciù.
Il
giovane vede decine di immagini di monumenti funebri, non ci sono mai stati così
tanti monumenti funebri come dopo la prima guerra mondiale; ogni città, ogni
paese ha il suo; diventano elemento di arredo urbano. Cimiteri di guerra, ossari
collettivi: la più impressionante celebrazione collettiva della morte mai
vista.
E
nasce la figura del tutto inedita del “milite ignoto”, tanto più glorioso
perché irriconoscibile.
Non
ha foto sulla tomba,
nota il giovane, negli ossari non ci sono foto.
Negli
anni successivi le immagini parlano dal grande schermo; il giovane ha scaricato
da Emule il
film “J’accuse” del regista francese Abel
Gance, del 1938.
L’attore
guarda in macchina, avanza verso lo
schermo, guarda in faccia
l’obiettivo:
–
J’accuse! Io accuso! Io accuso la guerra e
i guerrafondai! Alzatevi, morti di Verdun, il vostro sacrificio è stato
inutile!
Nel
film “J’accuse” un veterano impazzito richiama i suoi commilitoni morti -
i primi zombie della storia del cinema, pensa il giovane - per impedire una
nuova guerra. Un esercito di zombie travolge gli impauriti combattenti futuri e
le vittime della guerra che sta per arrivare.
Viene mostrata la guerra
respinta dal suo stesso prodotto, la guerra respinta da un mare di cadaveri: - Riempitevi
gli occhi di questo orrore! – continua a dire l’attore - E’
la sola cosa che può fermarvi!
- Anche lui come Mathew Brady. – si dice il giovane.
1936.
La macchina fotografica è perfezionata, è leggera; permette a tutti di
scattare foto-ricordo, e farne meravigliosi album fotografici.
1936,
Etiopia. Il giovane salva nel file una
foto, anche questa apparirà nel suo articolo:
un
uomo regge la testa mozzata di un capo ribelle etiope, la solleva dalla scatola
di latta di biscotti Lazzaroni. La
testa viene portata in giro nei
villaggi, dentro la sua bella scatola. E’ un insegnamento, un monito, perché
i selvaggi sono riottosi, si
rifiutano di accettare la
“civilizzatrice” occupazione italiana: e allora Benito Mussolini l’8
luglio 1936 autorizza a “condurre
sistematicamente la politica del terrore” . Gli etiopi devono
imparare ad avere paura.
Al
giovane pare di assistere alla scena: vede l’uomo della foto con la testa
mozzata in mano e il sorriso compiaciuto che ripone la testa nella scatola di
latta dei biscotti Lazzaroni, schiaccia l’occhio al pubblico con aria furba,
chiude la scatola, tira su una tracolla– nella foto non si vede, non
c’è, ma il giovane la immagina perfettamente; l’uomo si appende la scatola
al collo, ora ha le mani libere, può battere sulla scatola come fosse un
tamburo, il suono è cupo, la cassa armonica, diciamo così, è piena, ma
all’uomo non importa, fa un passo
avanti, si rivolge agli astanti e
con tono da imbonitore dice:
Venghino signori, venghino a
constatare di persona! Venghino a vedere il terribile mostro!
Questo spaventoso mostro,
che ora vi mostro,
non
può più essere pericoloso
Non
può più essere spietato
Perché
signori è… decollato!
E
voilà, apre la scatola ed estrae la testa. Click. That’s
entertainment!
Il
giovane trova altro materiale: è
incredibile – pensa- c’è
così tanto materiale, basterebbe guardare, riflettere,
forse ci si accorgerebbe di quale orrore sia la guerra. – Anche lui
ingenuo come Brady e gli zombie di Abel
Gance o forse, come loro, terribilmente
fiducioso?
Altri
album di foto, giapponesi questa volta. - Loro
fotografano tutto, ce l’hanno nel dna – pensa il giovane.
Nanchino,
Cina, 1937: il più grande stupro della storia. Ci sono foto di donne cinesi col
ventre squarciato da mandare in regalo agli amici. - Ma anche sulla rivista Life – ricorda il giovane - c’è
la foto della fidanzata americana sorridente che sulla scrivania sfoggia un bel
teschio di nemico giapponese. – e continua - Ciò
che traspare da queste foto è la
sicurezza di essere nel giusto, di fare cose innocenti quando si mostra la testa
di un capo ribelle nella scatola di biscotti, una donna col ventre aperto, il
cranio del nemico.
E’
in Spagna, nella guerra civile, che i fotoreporter
si gettano nella mischia: non hanno più l’ingombrante e pesante
macchina a soffietto, ma l’agile Leica, pellicola da
35 mm
, 36 scatti prima di doverla ricaricare. Che
macchina
la Leica
!- pensa il giovane, e accarezza
con uno sguardo la sua, sulla scrivania, nuovissima, digitale, insuperabile.
Nella
guerra civile spagnola ci sono fotografi come Gerda Taro. Il giovane guarda la
sua foto: bella, determinata. Lei
non è solo un corpo di donna, lei è una donna. Gli pare di sentirla:
-
Generale, domani rientro a Parigi, ho bisogno di
foto dal fronte.
Il
generale è furibondo. Non solo a Madrid
regna la confusione, non solo la situazione è critica, anche una fotografa
donna, questa Gerda Taro, a rompere
i santissimi!
-
Signorina, sparisca, tra poco qui scoppia l’inferno!
-
Appunto!
– dice
Gerda – devo documentarlo.
-
L’ordine
è di tornare indietro immediatamente, io non posso assumermi alcuna
responsabilità.
Il
giovane immagina di essere lì, vede Gerda
che ignora l’ordine e si butta
nella mischia, si ripara in un buco scavato per terra, tiene in alto la macchina
fotografica, finisce tutte le
pellicole che ha.
Tornerà
a Parigi, in una bara. E’ rimasta
schiacciata da un carro armato. Il giorno dopo avrebbe compiuto 27 anni.
Gerda
Taro è la prima reporter donna a morire in un’azione di guerra mentre svolge
il proprio lavoro.
Il
suo fidanzato è distrutto, è un fotografo anche lui; assieme a Gerda, si era
inventato un nome americano, per vendere meglio le loro foto: il suo nuovo nome
è Robert Capa.
Sarà
il più famoso fotoreporter di tutti i tempi.
-
Capa lo conoscono tutti - pensa il giovane -
Ma questo no - e digita:
Atelier Klinger, Grabenstrasse,
Braunau.
“Braunau
è una cittadina piccola, ma dignitosa, ditte solide, vicini dabbene, profumo di
torta e di sapone da bucato”. –
il giovane trascrive la citazione e guarda la foto di un bambino. Gli viene in
mente la voce di sua madre che quando guarda le foto dei figli piccoli delle
amiche dice: - E
chi è questo bel pupo? - il
giovane ha un sussulto, nella sua testa una voce risponde:
-
Cosa freka a lei?!
–
Oddio, chi parla?
–
Sono
Joseph Klinger, il fotokrafo. Kvesta foto l’ho scattata io, lei non kradisce
forse?
–
Ma questo bambino…
–
Ciucciotten,
pannolinen, pavaglinen, zonaglinen: il pampino, lodando Iddio e toccando ferro,
è sanen, somiglia ai genitori, al
gattino nel cesto, ai pampini di tutti gli album di famiglien.
–
Ma lo sa lei chi è
questo bambino, cosa ha fatto questo qui? E’ un mostro!
–
Ya,
un poco mostren! Pampino ha ein annen, piccolo mostro come tutti pampini sua età.
–
Questo
è un malvagio!
–
Ya,
un poco malvagien! Avere fatten pipì zu mio kuscinen, rikordo, ma genitori,
pakato lavanderia.
–
Questo
è un criminale!
–
Ya,
io zo. Lui tirare zonaglinen su mio preziosen obiettiven Carl Zeiss di Yena, ma
mankato. Pampino vivace. Io dare piccolo scappellotto su manina di pampino, così
pampino imparato!
–
Imparato?! Questo ha fatto campi di concentramento, scatenato una
guerra mondiale, portato il mondo sull’abisso!
–
Cosa
frekare a me, io non fare pettegolezzen su miei clienten! I genitori hanno
pakato zubito fotografien, perzone perbene herr e frau Hitler.
La
prima foto di Adolf Hitler, Atelier Klinger, Grabenstrasse, Braunau.
Non si sentono cani ululare né i passi del destino.
E’
notte ormai, il giovane deve finire l’articolo; è tardi, salva quel
che ha fatto su un cd, domattina taglierà l’eccesso. Però non ha ancora
finito, c’è qualcosa che deve
trovare, un tassello, una scheggia
di storia, una fotografia che gli si è incastrata nell’anima.
Internet,
digita, trova: Kevin Carter, fotografo sudafricano, morto suicida tre mesi dopo
aver vinto il premio Pulitzer nel maggio 1994 per una foto. – Per
questa foto: – il giovane la
salva nel file - l’incontro con il male
assoluto.
La
foto ritrae una bambina sudanese, un mucchietto d’ossa, rannicchiata a terra,
ingobbita, nuda in mezzo alla spazzatura, che sta morendo;
a pochi metri da lei un avvoltoio appostato, immobile, controlla ogni suo
movimento in attesa di ghermirla.
Il
giovane guarda la foto, pensa a Carter, lo vede
davanti alla bambina e all’avvoltoio. Immagina il
caldo, le mosche, la puzza. Immagina
Carter che suda, nella sua camicia di jeans, sotto il cappello di paglia. C’è
un albero, Carter si appoggia al tronco, c’è un po’ d’ombra e gli è più
facile stare immobile così appoggiato ad aspettare. Carter aspetta. Cosa? Che
l’avvoltoio apra le ali. Pensa che foto!
Un essere umano – la bambina - che
muore diventando un pasto per un altro animale: lì c’è la vera natura del
senso della vita. - Possibile che Carter
abbia pensato questo? - si
chiede il giovane. Eppure Carter ha dichiarato di aver atteso venti minuti che
l’avvoltoio aprisse le ali. - Magari in
quei venti minuti – continua il giovane - Carter
ha guardato in fondo all’anima nera del fotografo: forse si è detto che il
fotografo è un turista che può infilarsi in qualsiasi realtà ben sapendo di
poterne uscire quando vuole; che il fotografo è
un entomologo che guarda gli esseri umani con distacco, con l’arido
alibi della professionalità. Carter appoggiato all’albero –continua a
immaginare il giovane - sa
che il fotografo è sul confine rassicurante che si può sempre attraversare tra
“l’io” che osserva e “loro” che soffrono, una condizione di privilegio
esistenziale, che dà i brividi. Ma
è la stessa condizione – aggiunge il giovane - di
chi legge le notizie, di chi guarda le foto, di chi usufruisce
dell’informazione. I brividi che dà quella condizione di privilegio,
l’orrore, forse, hanno portato Carter al massimo dell’abiezione, ad
aspettare che l’avvoltoio aprisse le ali. Non le regole di marketing, le
convenienze editoriali, no: forse Carter ha
voluto crearsi il rimorso più grande che un uomo potesse reggere.
Il
giovane sente la voce di Carter nelle interviste che gli hanno fatto nelle poche
settimane prima del suicidio, lo sente mentre dice di odiare quella foto, lo
sente mentre ammette di essere rimasto venti minuti in attesa che l’avvoltoio
aprisse le ali.
Non
le aprì, lui scattò ugualmente.
-
Addirittura
aspettare che aprisse le ali!
-
Che
fine ha fatto la bambina?
-
L’ha
soccorsa?
-
Perché
non l’ha aiutata invece di scattare?
Kevin
Carter non ha mai risposto, o ha risposto in modo evasivo; disse: - Il fotografo non è il braccio di Dio, è il suo occhio.
Dopo
lo scatto, rimase seduto sotto un albero a piangere, a pensare a sua figlia, a
parlare con Dio. –
Chissà cosa gli disse, Dio – pensa il giovane. Qualunque cosa gli abbia
detto, l’anno dopo Carter si suicidò.
-
E
Nick Ut? –
si chiede il giovane. – Dio parlò anche a lui? -
Nick
Ut vinse il Pulitzer nel 1972 per la
foto della piccola vietnamita nuda che fugge da un bombardamento al napalm del
suo villaggio; quella foto divenne la foto simbolo della guerra del Vietnam.
Il
giovane vuole chiudere l’articolo con la foto di Carter: quella, per lui,
è una foto di guerra, la guerra che c’è sempre,
contro i deboli, i poveri, gli ultimi.
Ma
la realtà esige che si fotografi anche questo: un distributore di benzina nella
piazzetta di Gerico, Hiroshima che è ancora dov’era Hiroshima e dove si
producono molte cose di uso quotidiano. Insomma, la vita continua; continua a
Canne, a Borodino, a Guernica.
-
La
fotografia testimonia – così
pensa il giovane – Anche l’attimo fuggente ha un ricco passato.
Il
giovane non riesce a concludere la frase, l’esplosione è forte - è la terza questa settimana, la
città è una polveriera, il Medio Oriente è una polveriera! – i pensieri
schizzano veloci, dagli occhi, dalle orecchie,
il monitor si spegne, tutte le luci si spengono. Un bagliore,
dai vetri della finestra che tremano,
illumina la cupola della moschea.
Il
giovane è già scattato in piedi, deve uscire, deve andare là fuori:
la mano sicura afferra
la Leica
, è sempre pronta, come è sempre pronto lui, come è sempre pronta la vita
davanti all’attimo fuggente.
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