Sentivo ogni sera il profumo della carta della fotografia,
l’odore dell’inchiostro. Ritrovavo nel suo viso il sapore dell’ultima
volta che la vidi in carne ed ossa, prima d’intrappolarla nello scatto.
“Scattami un'altra fotografia”, disse una sera
inondandomi gli occhi del suo gelido sguardo tormentato da venti siberiani.
Un’aria fredda sembrò invaderci.
Non c’era motivo per cui io dovessi privarmi della sua
bellezza, né lei desiderava allontanarsi da me. Fu colpa della mia voglia di
immortalarla nella sua semplicità, nell’espressione più dolce che sapeva
regalarmi. Quella che illuminava le mie spente giornate. Come potrò dimenticare
il suo viso perso nel sogno abbandonato della sua mente? Amavo fotografarlo ma
una volta sviluppato dovevo eliminarne le copie,
perché non le rendevano giustizia. In foto non era lei e la cosa mi
sembrava insostenibile.
Dopo ogni scatto capivo la mia sconfitta, intuendo da
subito che non ci ero riuscito: perché il veleno della sua gioventù, iniettato
da anni di buie notti fissate su di un soffitto, bagnava di inutili lacrime
ogni suo sorriso. Mettendosi in posa uccideva quella
tenerezza che io cercavo invano di catturare. Dovevo, per renderle giustizia,
fotografarla di nascosto, nell’istante in cui i suoi pensieri si sarebbero
materializzati sul suo volto.
“Non è semplice”, rispondevo, “voglio farti una foto
vera.”
Il suo corpo minuto, sdraiato sul mio letto, dava
l’impressione di riempire la stanza d’un calore nuovo. La sua sola presenza
bastava a confondere i mobili.
“Che significa una foto vera? Prima continuavi a farmele
e adesso hai smesso. Forse non ti piaccio più?”
I suoi occhi si riempirono di lacrime che cercò a stento
di contenere. Vederla reagire in quel modo mi colpiva d’amore. La strinsi
forte a me: tremava, forse perché aveva capito finalmente quanto tenevo a lei.
Le sue braccia mi avvolsero in un infinito abbraccio, che si concluse solo
quando io seppi con esattezza cosa avrei voluto da lei: tutto.
“Mi piaci ogni giorno di più, ma voglio una foto in cui
posso ritrovare tutti i tuoi sentimenti, tutte le tue emozioni. Una foto che sia
come uno specchio, per poter vedere sempre in fondo ai tuoi occhi.”
“Oh, amore.”
Le lacrime calde scesero fin sulla mia spalla. Per la prima
volta la vidi splendida, unica come in realtà fu sempre.
Al di fuori delle mura del tempo che ci imprigionavano, il
mondo imperversava di foto. Scatti che dominavano la vita delle persone,
aiutavano i ricordi a invadere il presente.
Io stesso ero parte di una foto fiacca, immobile, appesa al
muro con un’unica espressione impressa sul volto. Mi domandai se qualcuno
poteva guardarla senza sentirsi inappropriato.
Mi vedevo sanguinante, sbiadito e triste. L’unico
sentimento che sapevo trasmettermi era la malinconia. Convinto che anche lei la
pensasse allo stesso modo, quando si girò per guardarla mi sembrò persa nel
passato. Con uno sguardo assente dava l’impressione di essere piena di
rimpianti per quel che eravamo stati. Mi venne voglia di toglierla dal muro e
strapparla, non mi rispecchiava più e ormai mi sentivo troppo diverso da quel
periodo. Provai rabbia per quella foto.
“Non sarebbe meglio toglierla?”, chiesi.
“Perché?”
“Non ti sembra ridicola?”
“A me invece piace molto.”
Mi domandai se avesse ragione: “Io non sono così”.
Il suo calore mi rincuorò. Mentre cercavo di proteggerla
mi sentii protetto, per una volta non pensai a niente. Semplicemente ero cullato
dal suo sonno. Mi addormentai.
Delle volte accade di non svegliarsi realmente da un sogno,
specie se quando ci si risveglia non ci si ricorda immediatamente di quanto
successo nelle ore prima.
Riaprendo gli occhi non seppi più orientarmi, non capivo
dove mi trovassi. Sentivo la gambe paralizzate, come tutto il resto del corpo.
Solo la mia mente cercava di dare gli impulsi necessari per risvegliarsi da quel
non-sonno.
Ero inerme mentre delle persone osservavano incuriosite
nella mia direzione, tutto intorno a loro una stanza bianca respirava di
fotografie in mostra.
Cercai, per quanto mi era possibile, di capire chi fossero
gli altri soggetti nelle foto. Con sorpresa riconobbi il suo viso, immortalato
nelle pose che non avevo mai accettato. Lei ritratta da me e io rinchiuso
nell’unico autoscatto che m’ero illuso di realizzare. Allora capii di essere
imprigionato nella foto appesa nella mia stanza, la stessa fotografia che in
quel momento ornava una mia mostra fotografica. Chi l’aveva organizzata e
com’è riuscito a ritrovare le mie foto scartate? Chi aveva avuto il permesso
di appendere le sue istantanee che io stesso rifiutavo? Soprattutto, perché non
riuscivo più a muovermi? Com’è potuto succedere di essere imprigionato in
una fotografia? L’idea di conservare per il resto della mia vita
quell’espressione, mi riempì di sconforto. Cercai invano di non sorridere, ma
inutilmente rimanevo in posa.
Chissà se anche lei provava quella sensazione
d’impotenza, se anche lei non riusciva a riprendere la padronanza del proprio
corpo.
Tutti quegli sconosciuti che ci scrutavano mi
infastidivano. Avrei voluto chiudere quella mostra e strapparmi dal muro, ma le
persone erano interessate e giravano indisturbate tra i miei affreschi privati.
Senza nessun permesso cercavano nei suoi occhi l’anima che solo io riuscivo a
capire.
Vidi una piccola folla radunarsi intorno ad una fotografia
in particolare: era più grande delle altre e quando finalmente riuscii a
metterla a fuoco, ricordai tutto.
Mi tornò in mente l’oceano luminoso di allegre scintille
che illuminavano il cielo notturno. Cascate di lucciole sopra le nostre teste
s’inseguivano in giochi di colore ipnotici.
Lei, nel mio ricordo, mi prendeva le mani e iniziava a
correre nel prato. Mentre si girava per cercare il mio sguardo, vedevo i suoi
capelli morbidamente disegnare nell’aria lievi forme geometriche che
riflettevano i fuochi d’artificio alle nostre spalle.
“Ferma”, dissi, “questo è l’attimo giusto per
farti una foto.”
Lei mi fissò interdetta, non capendo perché proprio in
quel momento ero deciso a scattare la sua foto migliore.
“Ma è troppo buio, non si vedrebbe.”
“I fuochi bruciano nei tuoi capelli, la luna si confonde
nel tuo volto.”
Mi accarezzò il viso sorridendomi. Allora cercò la posa
giusta ma io, tirando fuori la macchina digitale, le dissi che doveva correre
come prima.
Accesi la fotocamera. Per una frazione di secondo lo
schermo s’irradio di bianco, poi a fatica acquisì il mondo di fronte
all’obbiettivo. La mia realtà si muoveva sdoppiata dai cristalli liquidi.
Potevo vederne il futuro se solo avessi voluto, era lì davanti a me che
aspettava un mio segnale.
“Inizia a correre”, dissi. Prontamente lei riprese la
corsa da dove l’aveva bloccata.
“Ora voltati a guardarmi.”
Lei si voltò, ma ne fui stranamente sorpreso, come se
fosse l’unica volta che faceva quel gesto, e non scattai.
“Ancora”, urlai.
La seconda volta fu quella giusta, finalmente riuscii a
immortalare tutta la sua bellezza in quella corsa, con il vento sui capelli e
l’oscurità che l’avvolgeva. In quello sguardo spaurito e solo che riempiva
l’intera notte.
Lei, che lì di fronte a me vedevo riflessa nella
fotocamera, in realtà chi era?
Scomparve così di colpo, portandosi dietro tutto il mondo
che prima sembrava quasi stretto. Sconfisse il tempo e neutralizzandolo si perse
in esso, trasformandosi in mega-pixel.
La cercavo nella foto e, più la guardavo, più capivo che
finalmente avevo scelto l’istante esatto in cui potevo coglierne la vita.
Come volevo, le presi tutto, ma non capii se fui io a
essere intrappolato in quello scatto oppure lei.
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