racconti |
Camilla ha gli occhi dello stesso colore del
mare, ma il mare, è vero, non ha un solo colore.
D’estate
prende l’acqua dal mare col secchiello e, quando ci guarda dentro se ha
catturato qualche pesciolino, sa che quell’acqua non ha il colore dei suoi
occhi. Sono molto più scuri. Blu, un blu intenso, buio come il mare in
tempesta, pesto come il cuore del pescatore che batte tanto forte da dargli
visibile affanno quando la vela s’è rotta, è notte, e non c’è nessuno con
lui. È notte anche per Camilla e non c’è nessuno con lei. Non
fraintendetemi, Camilla non è sola su una barca in mezzo al mare, Camilla è
semplicemente sola, ovunque si trovi, sia notte, sia giorno. Al di fuori della
sua stanza tutto procede come sempre; il mondo non s’è fermato; oggi s’è
fermata solo Camilla. Immobile nel letto, guarda il soffitto, blu anche lui; con
mamma una decina di giorni fa ci hanno anche appiccicato le stelle, ma non è
servito: Camilla non dorme neanche sotto le stelle. Le stelle non ti sorridono
quando apparecchi la tavola, non ti regalano un cioccolatino quando torni da
scuola, non ti scaldano le mani quando hai freddo, non ti raccontano fiabe per
farti prendere sonno. Le stelle ci sono e sono belle, ma “se non ci
fossero”, pensa Camilla “non è che mi sentirei più sola”. Anche Camilla,
come le stelle, è bella, glielo dicono tutti, tutti in modo diverso. Mamma
glielo dice per se stessa: è merito suo se la sua dolce creatura è così
bella. Maria, la tata, glielo dice quando vede che i due abissi marini sul suo
viso sono più bagnati del solito. Vittoria glielo dice per farla stare ferma
quando le fa un ritratto. Veronica glielo dice per sentirsi ripetere lo stesso e
poter pensare che tanto, si sa, è più bella lei di Camilla, anche se i suoi
capelli sono neri come il carbone e sempre un po’ arruffati. Veronica non è
cattiva. È solo più brutta di Camilla e soffre per questo. Camilla non sa
soffrire per cose tanto stupide: per le apparenze, i sorrisi di circostanza, i
vestiti sgualciti, ma questo lo so perché l’ho vista crescere, io. Per otto
anni ce l’ho avuta sempre intorno, lei con la sua vivacità incontenibile, con
il suo continua esaltarsi per ogni piccola novità: per il profumo del prato
appena tagliato, per l’arcobaleno dopo la pioggia, per i giochi che non
invecchiano mai. Sto parlando dei giochi dei nonni: nascondino, il salto alla
corda, “Stregacomandacolor”, palla asino…i giochi in cui non hai bisogno
di nulla, se non di un po’ di compagnia. La piccola di casa si diverte con
chiunque a fare questi giochi: me, mamma, la sua amica Vittoria, la tata, la
nonna. Nonna Rebecca non ha ancora capito che i giochi che piacciono a Camilla
non hanno niente a che fare con computer, game-boy e playstation; così le fa un
sacco di regali, ma ha sempre l’impressione che quella sia l’unica nipote a
non essere contenta quando li riceve; “Camilla non apprezzi mai nulla”. Non
è vero al cento per cento. Adora i lecca-lecca rossi e gialli che nonna compra
la mattina dal panettiere. Non è tanto una questione di golosità; quei
lecca-lecca sono un simbolo: rappresentano un modo di camminare, di pensare, di
giocare. Quel modo è il modo di Pinocchio. Pinocchio è il suo cartone
preferito e anche lui, come lei, adora i lecca-lecca. Pinocchio ha un papà che
si chiama Geppetto, ma poi i due si separano e, sentendosi molto soli, si
ricercano a vicenda; Camilla non ha un papà, ma lo cerca ugualmente perché, al
pari di Pinocchio si sente molto sola. Mamma sente che Camilla quando si
addormenta chiama il suo babbo a gran voce. Si dice che i sogni siano un
ripercorrere le esperienze giornaliere: significherebbe che la piccola passa
tutte le sue giornate con il suo papà. Strano certo, ma è proprio così. Ci
parla tanto, più a lui che ai suoi amici, e le sembra quasi che, da quando se
n’è andato, la sa ascoltare anche di più. Se lo porta in tasca il suo papà,
in una piccola fotografia formato tessera che deve essere stata scattata prima
che lei stessa nascesse; ed è così che non riesce più a ricordarsi il suo
viso quando le rimboccava le coperte: ora ha nella mente l’immagine di un papà
molto più giovane del suo. Tocca coi polpastrelli i singoli dettagli di quel
ricordo un po’ stropicciato, gli pettina i capelli, gli mette a posto la
cravatta e lo guarda: ha proprio un bel papà. Nessuno sa che Camilla porta
sempre con sé quella fotografia, il suo conforto nei momenti di difficoltà. Se
qualcosa non va e cerca la forza per andare avanti, si mette una mano nella
tasca, sente che il suo babbo è vicino a lei e non si fa scoraggiare. Di notte
però non può accendere la luce perché rischierebbe di svegliare mamma e di
svegliare me, me l’ha detto lei. Ed è per questo che non dorme. Vorrebbe dare
la buonanotte a papà, guardandolo in faccia. Quando mi ha raccontato queste
cose le ho detto che era stupida, che una foto non rappresentava nulla, non
portava con sé un’eredità di emozioni, non aveva tanto significato quanto
lei gliene attribuiva. Sono proprio una cattiva sorella perché l’ho fatta
piangere, ho fatto piangere la mia Camilla, la più dolce delle creature. Ma ho
pianto anch’io sai, in silenzio e a lungo. Ho pianto perché io, che sono
grande, lo so: “niente è per sempre”. Le foglie cadono dagli alberi,
cambiando colore, e lo fanno sempre in autunno; i mazzi di fiori che regalano i
ragazzi innamorati appassiscono, e lo fanno in qualunque stagione; con loro a
volte appassisce anche l’amore e le promesse che si è soliti fare mentre ci
si tiene per mano. Passano gli anni e non rimangono tracce delle foglie, dei
fiori, delle creature che hanno messo piede su questa terra. È molto triste.
Non penso di essere l’unica ad avvertire un incolmabile senso di vuoto quando
penso che la vita è un succedersi di individui tanto uguali e tanto diversi che
si affannano nei pochi anni a loro disposizione a lasciare tutti un segno di
quello che sono. C’è chi scrive, chi dipinge, chi costruisce palazzi, chi
inventa, chi semplicemente ama. E a raccogliere l’eredità dei semplici, dei
non-poeti, dei non-ingegneri, dei non-artisti, dei non-geni, ci sono le persone
che con loro hanno condiviso qualcosa di bello. Ma la memoria a volte ci
tradisce e un viso diventa un abbozzo confuso: svaniscono progressivamente i
tratti, le espressioni, fino a che altro non rimane che una vaga idea della
persona che abbiamo tanto amato. Camilla nella sua inesperienza l’ha capito.
Ha preso la foto del babbo e l’ha fatta sua, per sempre. Un giorno, quando sarà
pronta ad affrontarlo, la porterò in quella che la nonna chiama “La stanza
dei ricordi”; lì tiene tutte le fotografie dei suoi piccini. Le darò un
lecca-lecca per darle coraggio e guarderemo insieme com’era papà quando
ancora non sapeva camminare, quando andava a scuola, quando s’è innamorato di
mamma, l’ha sposata, quando ci ha abbracciate per la prima volta, e quando per
l’ultima. Non sarà facile resistere alla tentazione di piangere, perdendoci
tra quegli scatti; ma uscite da lì ci sentiremo più ricche, consce d’aver
raccolto l’eredità di una delle persone che nella vita c’è stata più a
cuore. Ognuna ruberà a nonna una fotografia. Sarà il nostro piccolo segreto.
La tireremo fuori dalle tasche anche quando saremo grandi, quando non avremo più
stelle appiccicate sul soffitto, quando parleremo ai nostri figli, gli diremo
che sono belli, più di quanto non fossimo stati noi. Si chiederanno se è vero
o se è una bugia da genitore. Nella “stanza dei ricordi” si daranno una
risposta e la porteranno fuori di lì nelle loro tasche come testimonianza di un
passato che non hanno vissuto, di un presente che stanno vivendo, di un futuro
che saranno capaci di ricordare.
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