Un
suono soffice.
Si
era accovacciato per scattare delle foto ad una vecchina. L’aveva vista per la
prima volta qualche giorno prima…il suo piglio estraneo a tutto e tutti
l’aveva colpito.
Ricordava
il volto segnato dagli anni.
L’
ha rivista. Questa volta aveva la macchina fotografica con sé.
Un
suono soffice…quello di un corpo che si adagia sulle pietre bianche di un
lastricato lucido perché consumato dal tempo.
Lastricato
che potrebbe raccontare i passi, lastricato che potrebbe narrare i pianti di
gioia o di rabbia, di fede o di disperazione di quanti l’ hanno percorso
nell’andare e nel tornare dalla chiesa.
Un
suono soffice.
La
ragazza si era fermata per aspettare che lui scattasse, era stata lei a
chiedergli di portare la macchina fotografica.
E
gustava la scena.
La
vecchina che sbuca lenta da un vicoletto.
Lui
che estrae la macchina. Lento. Non vuole dare nell’occhio.
La
vecchina che scruta una finestra. Luce spenta all’interno.
Lui
che si accovaccia.
La
vecchina che si siede sul muretto che delimita il sagrato, stranamente posto al
lato est della chiesa.
Lui
che si siede a terra.
La
vecchina che si guarda intorno.
Dalla
strada principale arrivano parlando due turisti col figlioletto. Ma quando
vedono la scena, piombano nel silenzio. La mamma poggia decisa una mano sulla
spalla del bimbo, che si ferma all’istante e resta a guardare.
Un
silenzio irreale.
Una
scena irreale.
Un
ragazzo seduto a terra, all’ombra della gonna lunga e austera di una ragazza.
Una vecchina seduta su un muretto. Il ragazzo con la macchina fotografica. La
vecchina non si è accorta di lui.
Per
un istante il tempo si è fermato.
Con
ossequioso silenzio tutti hanno aspettato il suono dello scatto.
Poi
il tempo di ognuno ha ripreso la sua corsa.
Il
bimbo ha chiesto alla mamma qualcosa e senza ascoltare la risposta si è messo
ancora a saltellare mentre i genitori camminavano nuovamente.
Il
ragazzo si è levato da terra come se si fosse svegliato riposato dopo un lungo
sonno.
La
ragazza gli ha sorriso.
La
vecchina si è alzata ed è entrata in chiesa dall’ingresso laterale. Ignara
di quello che era stata capace di fare: fermare il tempo per quattro adulti e un
bambino…
La
ragazza gustava la scena. Poi ha ascoltato le parole del ragazzo “è uscita
da casa sua, ha guardato la finestra nell’altro vicoletto, luce spenta. Allora
è andata in strada, pensando che la sua amica fosse lì. Nulla. Non c’era. È
tornata. Si è seduta. Poi è andata in chiesa, sicura di trovare lì la sua
compagna.”
Il
ragazzo parlava a voce bassa all’orecchio della ragazza con la gonna, come se
le stesse confidando un segreto appena scoperto. Col tono lievemente agitato di
chi non riesce a contenere l’emozione.
La
ragazza l’ascoltava, serena e meravigliata. Proprio come i due bambini –
visti prima di arrivare nei pressi della chiesa –
ascoltavano quell’uomo con gli occhiali tondi e l’accento straniero.
Era seduto e sulle gambe incrociate aveva un libro di favole. Leggeva. Narrava.
E i bimbi erano attoniti e attenti.
Anche
lì uno scatto sotto lo sguardo sorridente di una coppia di mezza età, seduta
dall’altro lato della stradina stretta. Anch’essi ascoltavano.
La
ragazza si guardava intorno, tutto le parlava, le suggeriva.
Avrebbe
voluto fermarsi in un angolo e scrivere… descrivere… riscrivere…
trascrivere.
Avrebbe
voluto fermarsi in un angolo e guardare all’infinito, fermare il tempo o
semplicemente riportarlo ad una giusta velocità.
Il
ragazzo le ricordava cose, volti, espressioni che difficilmente riescono a
rivivere da soli.
Si
era riappropriata di sensazioni che le erano state rubate. Di emozioni che erano
state violentate negli anni precedenti da chi voleva sminuirla ed umiliarla.
“Ora
ti saluto con un’ esortazione, quella di non smettere mai di scrivere perché
ti piace farlo e si vede, e sai farlo molto bene.”
Con
queste parole, il ragazzo che scattava foto, nove mesi prima l’aveva salutata.
Nove
mesi…il tempo di una gestazione.
Nove
mesi…prima di rivedersi e ricominciare sereni.
Sì,
una gestazione, una gravidanza. Il tempo perfetto per partorire un nuovo modo di
essere presenti l’uno nella vita dell’altra.
Essere
ombre. Ma ombre di luce. Non di buio.
Ombre
che guardano ma che non giudicano.
Ombre
che esistono ma che non spaventano.
Il
fotografo di parole. Ecco come lei lo vedeva. Come un fotografo capace di
fotografare le parole. Le sue parole.
Parole
spesso silenziose. Mute.
Parole
che alle volte nascondono altro.
Parole
che in certi momenti vengono meno. Come se non ci fossero. Come se non
esistessero.
Parole
semplicemente taciute.
Parole
che lui riusciva ugualmente a leggere nei suoi occhi, nelle sue mani, nelle sue
movenze.
Era
così che lei si sentiva. Trasparente.
Non
le piaceva esserlo, non più. Preferiva restare nascosta nel suo guscio, nel
mondo ricreato da essa stessa. Preferiva restare nascosta lì, anonima. Invece
era maledettamente trasparente agli occhi verdi di quel ragazzo che scattava
foto.
Tuttavia
essere cristallina ai suoi occhi era stato un passaggio naturale, una situazione
non creata o artefatta. Quindi si sentiva serena, nonostante si sentisse nuda.
E
continuava a guardarlo mentre scattava.
Avrebbe
voluto essere capace di scrivere quei movimenti. La mano che ruota per la messa
a fuoco. L’occhio sinistro che si fa da parte dando spazio e autonomia al
destro. Il naso leggermente arricciato. Il silenzio che si crea intorno. E poi
il suono dello scatto.
Il
suono che ferma il tempo.
Sì,
è un fotografo di parole.
Perché
chi sa fotografare le parole, sa fotografare anche l’assenza di esse.
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