Lucia Raucci
Lucia Raucci

Il fotografo di parole

 

        racconti

         Un suono soffice.

Si era accovacciato per scattare delle foto ad una vecchina. L’aveva vista per la prima volta qualche giorno prima…il suo piglio estraneo a tutto e tutti l’aveva colpito.

Ricordava il volto segnato dagli anni.

L’ ha rivista. Questa volta aveva la macchina fotografica con sé.

Un suono soffice…quello di un corpo che si adagia sulle pietre bianche di un lastricato lucido perché consumato dal tempo.

Lastricato che potrebbe raccontare i passi, lastricato che potrebbe narrare i pianti di gioia o di rabbia, di fede o di disperazione di quanti l’ hanno percorso nell’andare e nel tornare dalla chiesa.

 

Un suono soffice.

La ragazza si era fermata per aspettare che lui scattasse, era stata lei a chiedergli di portare la macchina fotografica.

E gustava la scena.

La vecchina che sbuca lenta da un vicoletto.

Lui che estrae la macchina. Lento. Non vuole dare nell’occhio.

La vecchina che scruta una finestra. Luce spenta all’interno.

Lui che si accovaccia.

La vecchina che si siede sul muretto che delimita il sagrato, stranamente posto al lato est della chiesa.

Lui che si siede a terra.

La vecchina che si guarda intorno.

Dalla strada principale arrivano parlando due turisti col figlioletto. Ma quando vedono la scena, piombano nel silenzio. La mamma poggia decisa una mano sulla spalla del bimbo, che si ferma all’istante e resta a guardare.

 

Un silenzio irreale.

Una scena irreale.

Un ragazzo seduto a terra, all’ombra della gonna lunga e austera di una ragazza. Una vecchina seduta su un muretto. Il ragazzo con la macchina fotografica. La vecchina non si è accorta di lui.

 

Per un istante il tempo si è fermato.

Con ossequioso silenzio tutti hanno aspettato il suono dello scatto.

 

Poi il tempo di ognuno ha ripreso la sua corsa.

Il bimbo ha chiesto alla mamma qualcosa e senza ascoltare la risposta si è messo ancora a saltellare mentre i genitori camminavano nuovamente.

Il ragazzo si è levato da terra come se si fosse svegliato riposato dopo un lungo sonno.

La ragazza gli ha sorriso.

La vecchina si è alzata ed è entrata in chiesa dall’ingresso laterale. Ignara di quello che era stata capace di fare: fermare il tempo per quattro adulti e un bambino…

 

La ragazza gustava la scena. Poi ha ascoltato le parole del ragazzo “è uscita da casa sua, ha guardato la finestra nell’altro vicoletto, luce spenta. Allora è andata in strada, pensando che la sua amica fosse lì. Nulla. Non c’era. È tornata. Si è seduta. Poi è andata in chiesa, sicura di trovare lì la sua compagna.

Il ragazzo parlava a voce bassa all’orecchio della ragazza con la gonna, come se le stesse confidando un segreto appena scoperto. Col tono lievemente agitato di chi non riesce a contenere l’emozione.

La ragazza l’ascoltava, serena e meravigliata. Proprio come i due bambini – visti prima di arrivare nei pressi della chiesa –  ascoltavano quell’uomo con gli occhiali tondi e l’accento straniero. Era seduto e sulle gambe incrociate aveva un libro di favole. Leggeva. Narrava. E i bimbi erano attoniti e attenti.

Anche lì uno scatto sotto lo sguardo sorridente di una coppia di mezza età, seduta dall’altro lato della stradina stretta. Anch’essi ascoltavano.

 

La ragazza si guardava intorno, tutto le parlava, le suggeriva.

Avrebbe voluto fermarsi in un angolo e scrivere… descrivere… riscrivere… trascrivere.

Avrebbe voluto fermarsi in un angolo e guardare all’infinito, fermare il tempo o semplicemente riportarlo ad una giusta velocità.

Il ragazzo le ricordava cose, volti, espressioni che difficilmente riescono a rivivere da soli.

Si era riappropriata di sensazioni che le erano state rubate. Di emozioni che erano state violentate negli anni precedenti da chi voleva sminuirla ed umiliarla.

 

Ora ti saluto con un’ esortazione, quella di non smettere mai di scrivere perché ti piace farlo e si vede, e sai farlo molto bene.”

Con queste parole, il ragazzo che scattava foto, nove mesi prima l’aveva salutata.

Nove mesi…il tempo di una gestazione.

Nove mesi…prima di rivedersi e ricominciare sereni.

Sì, una gestazione, una gravidanza. Il tempo perfetto per partorire un nuovo modo di essere presenti l’uno nella vita dell’altra.

 

Essere ombre. Ma ombre di luce. Non di buio.

Ombre che guardano ma che non giudicano.

Ombre che esistono ma che non spaventano.

 

Il fotografo di parole. Ecco come lei lo vedeva. Come un fotografo capace di fotografare le parole. Le sue parole.

Parole spesso silenziose. Mute.

Parole che alle volte nascondono altro.

Parole che in certi momenti vengono meno. Come se non ci fossero. Come se non esistessero.

Parole semplicemente taciute.

Parole che lui riusciva ugualmente a leggere nei suoi occhi, nelle sue mani, nelle sue movenze.

Era così che lei si sentiva. Trasparente.

Non le piaceva esserlo, non più. Preferiva restare nascosta nel suo guscio, nel mondo ricreato da essa stessa. Preferiva restare nascosta lì, anonima. Invece era maledettamente trasparente agli occhi verdi di quel ragazzo che scattava foto.

Tuttavia essere cristallina ai suoi occhi era stato un passaggio naturale, una situazione non creata o artefatta. Quindi si sentiva serena, nonostante si sentisse nuda.

 

E continuava a guardarlo mentre scattava.

 

Avrebbe voluto essere capace di scrivere quei movimenti. La mano che ruota per la messa a fuoco. L’occhio sinistro che si fa da parte dando spazio e autonomia al destro. Il naso leggermente arricciato. Il silenzio che si crea intorno. E poi il suono dello scatto.

 

Il suono che ferma il tempo. Sì, è un fotografo di parole. Perché chi sa fotografare le parole, sa fotografare anche l’assenza di esse.