Carolina Venturini
Carolina Venturini

Il pozzo del tesoro

 

        racconti

Seduta sui talloni nudi sul parquet senza tappeto, con la schiena appoggiata al letto, si schiacciava le tempie pulsanti, stringendo le palpebre con forza. Mancava il riscaldamento, la pioggia batteva sull'asfalto, senza pietà. Intorno a lei, sparpagliati per terra, quindici kleenex grondanti di pianto e una gatta tricolore acciambellata al suo fianco. Un fascio di fioca luce mattutina illuminava un “tüz”, un'anatra dalle piume nere, rosse e bianche. Era andata alla fiera, quella mattina. Nascosta dal suo poncho aveva girato fra bancarelle stracolme di cianfrusaglie e suppellettili, guardando senza vedere. Aveva assaggiato un cannolo siciliano, aveva comprato le viole del pensiero da posare di fronte alla foto della madre, sulla cappa in cucina.

Nella bancarella del libri usati aveva trovato un rancido album fotografico della sua terra: l'aveva sfogliato senza leggere le didascalie inspirando polvere e nostalgia: la Pampa, ah la Pampa sconfinata! Le Monumentali Cascate di Iguassù: quella bruma acquea che tanto l'incantava! L'Immancabile Gardel, vestito di nero, lo sguardo penetrante e la voce che spacca il tempo e le distanze, trascende la pagina giungendo profonda, armonica, calda nell'anima: .”..Tengo miedo del encuentro/ con el pasado que vuelve/a enfrentarse con mi vida./ Tengo miedo de las noches que pobladas de recuerdos encadenan mi soar/ Pero el viajero que huye/tardo o temprano detiene su andar.” Sfogliava le pagine, s'immergeva negli scatti ed era come viaggiare nel tempo.

Il caotico cicalare della gente tutt'intorno la sovrastava senza infastidirla: scompariva nel brusio. Nel silenzio della sua mente incontrava la sua terra.

Stava per andarsene quando il suo sguardo fu incatenato dalla vivida pece: una vecchia zingara sdentata la fissava, seria e austera. Pareva una matrona vestita di stracci, le guance annerite, i capelli unti malamente raccolti in un fazzoletto fiammante, altrettanto lercio, gli zigomi pronunciati e la mascella allungata, le folte sopracciglia e i peli che fuoriuscivano da bitorzoluti foruncoli, ricordavano il muso di un drago, il naso adunco il becco dell'aquila cacciatrice.

I loro occhi si incontrarono e lei, pregna d' umidità, sentì il calore del dolore pervaderla, infuocandole il volto. Nelle piante dei suoi piedi saettò un brivido di panico: l'onda d'urto dell'incontro la scosse nel profondo, diramando le sue vibrazioni dalla dura pelle dei talloni.

La vecchia, impassibile, austera, dallo sguardo tagliente, le fece cenno di avvicinarsi. Le mani nodose nascoste fra le pieghe della gonna afferrarono quelle di Tina, non appena le fu accanto: -“Ti vedo” - disse la zingara - “ Vattene a casa, sciocca, vattene a casa e non perder tempo!”

Tina la guardava sconvolta, non comprendendo. Sempre tenendole stretta un polso, la gitana estrasse dalla tasca un oggettino piccolo piccolo, che stava in una mano e glielo passò con violenza, chiudendole subito il pugno, arpionando con il suo sguardo quello della ragazza, illuminando le sue ferite con tutta la violenza della consapevolezza.

“Vattene ora!” - la esortò, allontanandola con un lampo di scherno, sofferenza e soddisfazione.

Tina posò lo sguardo sulla sua mano. Alzando gli occhi, scoprì sconvolta che l'anziana donna era scomparsa. L'argentina prese a correre a perdifiato. Dimentica dell'ombrello si buttò a capofitto nel traffico, scontrandosi fra i passanti, cadendo nelle pozzanghere; infradiciandosi la lunga gonna marrone lasciò alle sue spalle le ingiurie più pesanti mentre le campane del duomo suonavano la mezza. Folate d' autunno le scarmigliavano i capelli. Un tappeto rosso d'acero assorbiva i suoi passi frettolosi ed angosciati. Un'ansia, un turbine, un dolore. Quasi scassinò la porta in ottone del suo appartamento, tremando sconvolta. Salì, dimentica della posta da raccogliere, della vicina da salutare, dell'ombrello grondante che chiazzava il pavimento.

Abbandonò le borse a terra mentre una folata di vento chiuse definitivamente il mondo alle sue spalle. L' immagine di Plaza de Mayo vista nell'album fotografico nella bancarella tornò inspiegabilmente nella sua mente. Fu subito scacciata. Ed ora eccola lì, fradicia d'umidità, accucciata e nascosta, protetta dalle persiane quasi completamente serrate, sciolta nella penombra della sua camera, nuovamente a mollo nel silenzio.

Il tempo scivolava intrecciandosi con le lacrime sulle sue guance, cancellato e spazzato dal dorso delle sue mani secche di lavoro.

I rintocchi delle campane sbiadirono, scomparendo dal mondo di Tina.

Era giunta in Firuli da pochi anni e mai prima d' ora aveva trovato il coraggio di aprire il baule che aveva imbarcato dall'Argentina, emigrando. Fino ad un certo periodo della sua vita l'aveva riempito, poi, d'un tratto, senza sapere nemmeno perché, aveva smesso. Tuttavia non era riuscita a lasciarselo alle sue spalle quando fu costretta a salpare sul transatlantico in fretta e furia.

Di quei giorni non ricordava nulla, di quel pesante oggetto, invece, rammentava la sua storia.

Era un baule capiente ma non eccessivamente allungato, in legno, dipinto di nero, rivestito di velluto verde internamente. C' era una tasca rettangolare ricavata dalla stoffa, in una parete interna con una zip. Non c'erano fronzoli, decorazioni, pizzi in nessun altra parte.

Era il baule della sua nonna, lo chiamavano “il pozzo del tesoro “ ed era passato di madre in figlia per diverse generazioni fino a giungere a lei. Quando una madre anziana si rendeva conto di essere ormai prossima al trapasso, chiamava la figlia al suo capezzale, allontanando ogni altra persona. Sorseggiando insieme l'ultimo mate, donava alla figlia il “pozzo” che era appartenuto a lei, tramandandolo alla futura donna: intatte le sue funzioni, il suo potere, la sua magia, il suo ruolo, la sua importanza. Fa parte della tradizione lasciare nel “pozzo” adagiata su un cuscino bianco, semplice, nudo, una piccola “mueca”, una bambolina di pezza vestita con il tradizionale poncho argentino e le scarpette da tango ai piedi.

Il baule viene chiamato “pozzo dei tesori” perché le donne vi accumulano al suo interno ricordi, ninnoli, fotografie, nastri, foglie, decorazioni, poesie, cartoncini, ritagli e tutto quanto ha toccato la loro vita ed è stato così importante da meritare il ricordo.

Quando una donna è persa, quando è stanca, angosciata, quando ha perso la fede o la speranza, quando è in preda alla rabbia, alla nostalgia, alla necessità del ricordo apre il suo “pozzo”, guarda dentro e quasi sicuramente troverà un oggetto che la illuminerà, le darà una risposta, uno schiaffo, un consiglio, un conforto. Ma non sia mai che un uomo si avvicini a questo tesoro!

La donna deve proteggere ed avere cura di tutto ciò, costi quel che costi. Solo se lei vorrà il suo uomo farà la conoscenza di alcune parti del “pozzo del tesoro”. L' uomo deve imparare a rispettare questo segreto: una donna può anche sentirsi in diritto di abbandonare il marito qualora questo violi il suo spazio più segreto, lo invada con noncuranza o violenza o indifferenza.

Nelle grandi tasche dei grembiuli delle donne spesso e volentieri ci sono protuberanze: è la piccola mueca accovacciata sullo sfondo della tasca. Quando una donna la riceve in dono (e quando succede è fortunata), porta sempre con sé la bambolina e la interroga quando si trova ad un bivio e non sa che strada prendere, le confida i suoi rimugini.

Purtroppo la bambolina della madre di Tina scomparì nel gran trambusto avvenuto in seguito ad un incidente d' auto in Buenos Aires. Un rogo spaventoso inghiottì, devastando, la persona che fino ad allora era stata il fulcro di molte vite.

Le foto che comparvero sui giornali raccontarono un raccapriccio di lamiere e lingue di fuoco in una strada piombata nello sgomento. Pompieri affaticati cercarono di spegnere l'incendio mentre un uomo prostrato a terra piangeva il suo dolore, muto in uno strazio che non riusciva a sbraitare: il padre di Tina non era sull'auto ma la stava aspettando. Un sussulto, la gioia gli esplose nel cuore: amava con un amore immenso quella donna che si stava avvicinando con l'auto lucidata a dovere. Proprio quando era quasi giunta all'ultimo semaforo un boato assordante, un frastuono e lo scoppio dell'inferno di fuoco più grande che avesse mai visto.

Nessuno, ad oggi, era riuscito a fornirgli una spiegazione soddisfacente dell'accaduto e l'uomo rimase dilaniato dal dolore per sempre, estraniandosi dagli affetti, seppellendosi nel lavoro, nella solitudine, nel tabacco, nell'alcool.

In molti lo videro fissare senza espressione la foto monumentale della moglie, appesa nel loro soggiorno d'epoca: per ore rimaneva in piedi, davanti al camino, l'immagine nella cornice dorata, dimentico di tutto e di tutti. Rideva, la sua giovane sposa.

Immortalata negli scatti in bianco e nero, mentre correva sulla spiaggia vestita di seta pareva una vergine che balzava nell'abbraccio della vita.

Ed era così bella, così strenuamente bella che il marito, ancora oggi, non aveva smesso di desiderarla pungentemente. Seduto su una poltrona quasi sfondata, bevendo rhum e grappa inviata dai suoi parenti italiani, aveva composto quaderni di poesie osservando quel ritratto.

Terminato l'impeto creativo alimentava il fuoco con i suoi ululati in versi e l'ultimo liquore.

La piccola figlioletta andava, di tanto in tanto, dal padre in cerca di consolazione, ma il dolore assordante dell'uomo l'accecava e lei, piccola bambola dall'incarnato sfumato di caffè in ceramica, ricordava in dolorosamente i lineamenti, il taglio degli occhi, l'espressione colma di speranza, la boccuccia di rose che un tempo non troppo lontano erano appartenuti alla sua adorata moglie.

Il fuoco aveva fuso, distrutto, strappato, carbonizzato tutto il possibile. Così venne detto.

In quel colossale falò perse la vita anche la mueca della bella Signora Sanchez in Venturini e Tina rimase orfana delle sue due madri in un battibaleno. Tina non aveva mai visto la piccola bambola di pezza ma la madre gliene aveva parlato come un “segreto fra donne” che un giorno le avrebbe trasmesso e lei era impaziente di diventare abbastanza grande per conoscerne i contenuti.

Aveva solo cinque anni quando la sciagura si abbatté su di lei.

La camera ardente venne allestita nella loro casa. Il padre di Tina allontanò la bambina quando entrarono due zie vestite di nero reggenti il “pozzo del tesoro” della defunta.

Chiusero le porte e quando ne uscirono tutti i ricordi che la donna aveva accumulato e protetto nel tempo le erano stati sistemati intorno al corpo: fra le mani, sul cuore, appoggiati al capo e ai piedi.

Le due matrone richiusero il feretro e, lasciata la stanza, le fasi del rito funebre ebbero inizio.

Le zie andarono dalla piccola Tina, la portarono nella stanza personale della mamma.

Qui lei dipingeva, scriveva, faceva a maglia e parlarono per la prima volta del “pozzo del tesoro” alla piccola Tina sconvolta, annebbiata, ammaccata nell'anima.

“Ora è tuo” - Le dissero anche che si erano permesse di aggiungere un piccolo ricordo: il gancio in ottone scattò ed il coperchio si aprì. Sul fondo non c'erano muecas ma un ritaglio di giornale: la foto dell'incidente e l'articolo. Le due sagge donne sapevano, infatti, che presto o tardi le sarebbe stato indispensabile quel ricordo, per diventare donna.

“Apri quel cassetto” - le disse la zia più anziana, guardandola dolcemente e con tristezza.

La cassettiera vicino alla finestra racchiudeva gli album di fotografie della mamma.

“ Scegli la foto che ti piacerebbe tenere nel tuo pozzo” - e così dicendo la lasciarono sola nella stanza che odorava di mamma, di profumo alla vaniglia. Echeggiava il ticchettio appassionato sulla macchina da scrivere quasi come se la donna fosse ancora appostata su quell'aggeggio, in preda all'impeto più focoso pregno di ideali, illusioni, immagini. Era la prima volta che Tina visitava il mondo segreto della madre. Ed ora, a mille e mille chilometri di distanza, in un appartamento scarno, in una uggiosa città del nord est Italia, accovacciata per terra, tirava a sé il baule da sotto il letto: da tempo aveva smesso di riempirlo. Lo guardava, senza il coraggio di aprirlo. Un flash le riportò alla mente le due zie: grazie a loro crebbe in quegli anni duri.

Un rombo di tuono frantumò impietoso il cielo. Scrosci di pioggia si abbatterono sulle persiane socchiuse tamburellando violentemente sul legno.

D' un tratto il carillon sulla scrivania si aprì e le note di un tango segreto si sparsero nell'aria.

La pancia di Tina fremeva.

Si alzò, dirigendosi verso la cucina, la gatta alle calcagna ed una strana voglia di caffè

Le finestre della cucina si aprivano su un scorcio di città plumbea, in cui il grigio dell'asfalto sfumava nella nebbia, nei cappotti pesanti dei passanti infreddoliti, nella tela dei neri ombrelli.

Il fumo della sua sigaretta, la sua fragranza , l'aroma, dipingevano la sua malinconia.

Con la tazza fumante fra le mani si diresse nuovamente nella camera, spalancando i venti, lasciando entrare un soffio pungente d'umidità: aveva bisogno di respirare.

Il picchiettio delle gocce sui tracciati delle auto, sui marciapiedi e sulle pozzanghere copriva i brevi sorsi di infuso che Tina ingurgitava lentamente con lo sguardo fisso sulle cime innevate delle Alpi, sentendosi incapace di frenare il paragone con la sontuosa maestosità increspata delle sue Ande. Quanto le mancava l' Argentina: aveva lasciato brandelli di se stessa in quella terra sconfinata.

Non sapeva ancora se sarebbe mai tornata, non sapeva se aveva perdonato eppure non riusciva a staccarsi dal ricordo velato di sapori, scorci, vicoli, momenti.

Li legava a sé con la rabbia, la nostalgia e la malinconia, senza sapere che questi legacci raccontavano tutto il suo amore indistruttibile per le sue origini, nonostante questi posti furono lo scenario della decapitazione di molte parti di sé.

Come il canto di una sirena proveniente dall'abisso del suo mistero, il “pozzo del tesoro” iniziò a chiamarla, suadente e spaventoso. Pareva quasi di scorgerle le lunghe dita scarne emanate dalle pareti del baule che si allungavano verso la schiena di Tina, posandosi delicatamente sui suoi fianchi. La fecero ruotare verso di sé e, abbracciandola, la avvicinarono al lucchetto con passi lenti, quasi ipnotizzati. Un vento gelido penetrò nelle ossa, smuovendo le tende e le lunghe ciocche di carbone della ragazza. Le ante delle finestre sbatterono violentemente chiudendosi in botto.

Un miagolio.

Silenzio.

Tina sollevò di scatto il coperchio del baule.

Profumo di lavanda, cacao, carta ingiallita. Piccoli contenitori rotondi di stoffa, velluto, cartoline, album fotografici chiusi con un fil di rafia. Boccettine ancora riempite da gocce d'essenza dorata, un guanto con un nastro di fondente ad adornare il polso spruzzato di rifiniture in pizzo. Un fermaglio per capelli a forma di farfalla, chiodi di garofano in sacchettini ad uncinetto con laccetti in raso: tutto volò sul letto, svuotato con un gesto immediato, liberatorio.

Una scatola in cartone tappezzata di ritagli di pannolenci colorati era scivolata fra la trapunta color del mercurio e le federe ricamate a mano dei tanti cuscini nel letto ad una piazza e mezza di Tina.

Stava per aprirla quando il campanello suonò con allegra insistenza: glin glon, glin glon, glin glon!!

D'un tratto si ricordò della sua amica friulana, Graziella, anche lei addetta alle camere del Hotel Majestic. Avevano legato subito, riconoscendosi reciprocamente quel fulcro di timidezza e malinconia illuminato da lampi di vita che solcavano come guizzi esaltati i cieli dei loro sguardi.

Quel pomeriggio si dovevano incontrare per uno scambio culturale: lei era in ferie mentre l'amica aveva la giornata libera. Avevano deciso di incontrarsi a casa dell'argentina per passare qualche ora fra chiacchiere, musica (la friulana si stava appassionando al tango) e dolci delle reciproche culture: Tina avrebbe insegnato a Graziella gli alfajores, i biscottini al mou tipici nel periodo natalizio, e il “Dulce de leche”, fatto con marmellata di latte così estremamente dolce, tipicamente argentino e così strenuamente accordato alla malinconica giornata uggiosa che era impossibile resistere alla tentazione dei fornelli. Graziella se n'era innamorata sfogliando un libro di ricette che la collega le aveva mostrato in pausa pranzo, la settimana precedente.

Si era innamorata di quelle foto che ritraevano rondelle di friabile pasta al burro farcite con ripieno al mou e cioccolata, tanto che al solo osservare le fotografie, al solo leggere gli ingredienti della ricetta scritta accanto, le era venuta una strenua gola di dolce che l'aveva perseguitata nei due giorni seguenti, obbligandola a chiedere all'argentina un incontro di pasticceria.

Aveva promesso, per accattivarsi il consenso, di insegnare a sua volta il tipico dolce friulano, la gubana. Tina si era completamente dimenticata dell'appuntamento. L'incontro con la zingara l'aveva del tutto sconvolto e l'impulso, inspiegabile, di aprire quel baule l'aveva assorbita fin nel midollo.

-”Stai bene?” - Graziella guardava l'amica, storcendo il naso preoccupata. Gli occhi scavati dal pianto, il pallore del viso, l'emotività profonda dipinta sul volto della giovane donna, raccontavano il disagio più di mille discorsi.

“No, non molto. Ti dispiace se rimandiamo?” - E così rimandarono. Tina, appena richiusa la porta alle sue spalle, volò in un battibaleno nella sua stanza, con la medesima foga della mattina, ansiosa di non perdere quell'energia, quel diktat inspiegabile che le imponeva di tornare nella penombra, fra i rottami della sua vita, i ricordi che non era riuscita a cancellare, le sorprese che la sua mente aveva dimenticato, gli sbuffi di calore in epoche lontane condensati in nuvolette di polvere datate anni.

Chiuso nuovamente il mondo alle sue spalle si trovò inchiodata sullo stipite della porta con lo sguardo fisso alla scatola in patchwork.

La coperta colorata da ogni genere di memoria l'esaltava e l'intimoriva.

Si sedette sul materasso, prendendo sulle ginocchia la scatola, mentre la gatta tricolore abbracciava il suo bacino, approssimandosi al sonno. I rintocchi del pendolo sulle scale si alternavano ai battiti del suo cuore e d'un tratto le medesime scale in legno si tramutarono in una sontuosa scalinata in marmo bianco, all'interno dell'atrio di una villa dalle ampie e luminose stanze.

Era il 1955.

Non ricordava né il giorno né il mese.

In un baleno l'immagine pulsante di foga d'allarme con cui il padre le andò incontro salendo i gradini a due a due, disordinato nel vestire, agitato.

Nitido lo sguardo volitivo e spaesato con cui le ordinò - con un vigore da anni non manifestava - di andare subito nel suo studio: non c'era tempo. Tutto divenne vortice cannibale di dettagli: la valigia preparata in fretta e furia, poche, scarne spiegazioni. Documenti, visti, biglietti preparati macchinalmente, sveglia all'alba, una veloce corsa verso il molo e poi la sconfinata distesa dell'oceano spalancatosi davanti ai suoi occhi. Alle sue spalle un uomo vestito di nero ingoiava lacrime di disperazione. Non aveva idea del perché, conosceva solo il nome della destinazione: Udine. Sapeva solo che a metà percorso avrebbe trovato i suoi parenti friulani ad attenderla.

Parenti da parte paterna mai incontrati. Li conosceva solo tramite cartoline inviate di tanto in tanto e, una volta all'anno, pacchi con cibarie assortite.

Il padre era stato emigrante da piccolo. I nonni di Tina erano gocce dell'alluvione umana che invase l'Argentina agli inizi del Ventesimo secolo. Fortunatamente per loro il sogno divenne con il tempo realtà. I parenti rimasti in Italia non smisero mai di mantenere un contatto con gli emigranti, generazione dopo generazione e quando giunse quell'allarmante richiesta di aiuto subito si precipitarono a dare disponibilità per accogliere la ragazzina, in nome di quell'antico legame di sangue che univa tutti loro.

Fino al momento della partenza, Tina aveva vissuto in una situazione relativamente protetta: la sua famiglia era benestante, nonostante i tempi.

Studiava a casa e la maggior parte del suo tempo lo spendeva fra gli scaffali della piccola biblioteca del padre o a giocare nell'antica stanza della madre, rimasta intatta, intoccabile.

Sbarcata a Trieste la prima cosa che udì dalla donnona che le si parò di fronte con una fotografia in mano e una lettera di presentazione, fu: “Buše la man che ti točhe! “. In seguito comprese che quella frase era un sospiro di sollievo della sua nuova zia. Quando Tina aveva abbandonato da qualche giorno le coste dell'Argentina, Plaza de Mayo era stata bombardata dagli arei della Marina, producendo centinaia di morti. Plaza de Mayo: la sua Plaza de Mayo! Era iniziata la “Revoluciòn Libertadora”, lei era distante infiniti chilometri dal padre e solo ora comprendeva il perché di quelle poche parole, l'ansia, la fretta, la necessità di sbrigarsi: se avesse saputo non avrebbe mai e poi mai accettato di abbandonare il padre. Suo padre! Quanto gli mancava suo padre! Le notizie scarne le giungevano con il conta gocce. Nulla colmava quel vuoto, tutta quella nostalgia, il profondo bisogno che pulsava annaffiato dalla consapevolezza acetosa di non poter più tornare.

Per la sua terra erano tempi tragici, di violenza e di dolore. E di nuovo Gardel nelle sue orecchi, e di nuovo “Volver/con la frente machita:/las nieves del tiempo/platearon mi sien”.

Tina stringeva al suo grembo la scatola pezzata, le spalle curve, abbandonate. La nostalgia, la dilaniante ferita di un ennesimo distacco immediato, definitivo, l' aveva talmente scuoiata che qualche cosa in lei s'era spento. Il velo della notte era comparso tra le sfumature nelle sue iridi. Quando fu costretta ad emigrare aveva solo dodici anni, ne erano passati altri venti ma il suo cuore, nel punto più profondo, dimenticato, invisibile ad occhio nudo, non aveva cessato di sanguinare.

In quei giorni veniva assegnato il Nobel per la Letteratura ad Eugenio Montale e Tina, che amava le lettere più di ogni altra cosa, si era imbattuta per caso in alcune sue liriche in una racconta nella biblioteca comunale e, senza capire perché, s'era sentita smuovere dentro leggendo: ”Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino”.

Uscita, aveva sentito l'impulso inspiegabile di comprare quella raccolta. Tina posò lo sguardo verso il comodino: l'immagine di Montale sulla copertina lucida le ricordava i lineamenti del padre, impressi nella sua mente per sempre. Emozione sgorgò dai suoi occhi vividi di turbamento.

 

  Correre sull'asfalto bagnato le era sempre piaciuto; gli odori della campagna livida le riempivano i pori quasi fino a farla scoppiare.

Non importa se il respiro era affannoso, quasi fino a scoppiare, lei correva, correva, correva, mentre le lacrime erano pioggia e la pioggia era compartecipazione del creato alla suo dolore.

Falcate convinte l'allontanavano dalla sua casa, dal suo baule, dai suoi ricordi.

Ripercorre con la mente i giorni dell'abbandono, la solitudine martellante sulla nave, la trivella nostalgica e quel senso di smarrimento completo in un Paese che mai aveva visto e che in nulla assomigliava alle sue origini, l'aveva quasi strangolata.

Sapeva che avrebbe dovuto affrontare nuovamente, sapeva che era solo all'inizio.

Sentiva il fortissimo impulso a richiudere tutto sotto il letto, tentando di dimenticare ma una voce sconosciuta fino ad allora le intimava, nel profondo più profondo del suo cuore, di non mollare, di continuare, senza scappare. Aveva sollevato il coperchio, aveva guardato, aveva annusato, aveva starnutito invasa dalle pagliuzze di polvere sottile, aveva bagnato con se stessa le immagini e le stoffe: come poteva fingere che nulla era accaduto? Sapeva per certo di aver riaperto quella ferita perché lo voleva, perché era tempo di cercare riposte. Sapeva altre sì che quella ferita di cui solo ora accarezzava i lembi della cicatrice riaperta, era una ferita ignorata da sempre.

Aveva bisogno di capire. Cercava un senso, un perché.

Il vuoto nella sua vita rimbombava come echi di cannone e mitraglia. Non capiva l'origine di tanta assenza. Assenza di amicizie reali, di affetti concreti, di abbracci. Assenza di telefonate: erano anni che non sentiva suo padre. Passarono molte lune prima di poterlo salutare al telefono, una volta giunta in Friuli e quando ciò accadde le sue illusioni si frantumarono come granella di cristalli. C'era fretta, distacco.

Assenza di sogni, assenza di piaceri. Assenza di spiegazioni: chi era lei? Chi era suo padre? Cos'era successo realmente alla madre? Perché tanta fretta nel imporle l'espatrio?

Assenza di presenza: i parenti friulani erano contadini e la loro vita si realizzava nel campo. Bisognava lavorare duro e non c'era tempo per salamelecchi. Nemmeno per la letteratura, che tanto amava. Si vide costretta ad abbandonare i libri: mancavano nelle case, mancavano i soldi, mancava la cultura. Le mani rigate dai tagli, i calli duri, la pelle screpolata. Quella divenne la sua realtà.

Una volta aveva provato a raccontare di Borges ma subito aveva taciuto: lei parlava di un mondo distante, incomprensibile, che molti ignoravano nonostante i tanti racconti dei rimpatriati, le trasmissioni radio, le cartoline.

Nessuno le chiese mai: ti manca casa? Ti manca il mondo che hai lasciato? Ti mancano i pupazzi che non hai potuto prendere, le tue bambole, i tuoi magici libri di favole? Ti mancano le passeggiate a cavallo? Ti manca la tua mamma? Ti manca il tuo papà?

Attendeva notizie dall'Argentina, attendeva il postino con ansia: per due anni, ogni giorno, faceva il palo davanti casa sperando in una lettera. Non arrivò mai. Una volta, sfogliando album di famiglia, vide una foto di suo padre in fasce, il giorno del suo battesimo. Trovò una cartolina delle nozze dei suoi genitori, accarezzò la calligrafia della mamma, abbozzò un mezzo sorriso nel disegnino creato dal papà, ma subito richiuse, sbattendo il cassetto.

Erano passati compleanni, stagioni, diplomi da quei momenti ma lei si sentiva ugualmente amputata nel profondo. Non capiva chi era e questo allarme era comparso dal niente, svegliandosi una mattina fradicia di sudore dopo incubi a catena, mezzo urlando, in tachicardia e panico.

Pulire gabinetti, rifare i letti, spolverare, svuotare cestini con preservativi usati: che cosa c'entrava lei in tutto questo? Qual'era la sua strada? Perché vivere era identico al non vivere? Continuava a chiederselo mentre puliva gabinetti, cambiava le lenzuola, svuotava i cestini. Era questo che voleva? Martellava in testa la necessità di capire chi, che cosa, quando.

Mentre correva le balzò nei pensieri una certezza:

“Ma io non c'ero al funerale di mia madre!” ed il panico la pervase fino a farla soffocare. Si fermò in un baleno, le scarpe affogate nel fango. Tremolavano le ginocchia e presto si ritrovò accasciata in singhiozzi.

“Non c'ero!! Non c'ero!! Mamma! Non ho potuto nemmeno salutarla! Mamma!”.

Carrellate di flash continui: quando la madre morì lei non era in casa, era andata a dormire da un'amichetta. Come aveva potuto? Quando le zie svuotarono il contenuto del pozzo nella bara della madre, lei non era presente e quando si svolse il rito funebre lei fu tenuta lontana con l'inganno.

Com'era stato possibile? Lei, chiusa nella stanza segreta della madre, uscì da sola, svariate ore più tardi: i ricordi ricomparvero vividi e sconvolgenti.

A viverli era la Tina di allora, infante di cinque anni, spaesata, con quel “click” dentro il cuore che la proteggeva e salvava da un dolore allucinante. Chi passava attraverso la potenza violenta della consapevolezza immediata era la Tina di oggi, trentenne.

Nessuno si preoccupò di curare il lutto, spiegare le cause, coccolare e colmare la voragine.

Le zie avevano lasciato la casa da tempo. Il padre rimase serrato nel suo studio senza dar cenni di vita. Il buio piombò nelle stanze mentre il silenzio traboccava da ogni angolo. D'un tratto tutti i profumi, gli accenti, i ninnoli si manifestarono nella memoria della donna, come se fosse nuovamente nella sua villa in Buenos Aires. Il freddo gelido del passamano in marmo bianco, il rumore dei tacchetti sul pavimento, l'eco dei singhiozzi, un Dulce de leche lasciato a metà da giorni.

Le foto sul pianoforte in cui la madre mille e mille volte aveva intonato tanghi appassionati, scomparirono celate dall'oscurità, le lettere d'amore nutrirono il fuoco nel camino.

Il cappello della madre sulla cassapanca in ebano nell'ingresso, il suo cappotto dal taglio elegante.

I quadri a mezzopunto appesi alle pareti.

Tina ritornò nella stanza della madre, si accucciò dietro la sponda del divano e rimase lì, per terra, per ore. Poi, seduta alla scrivania, prese un foglio e cominciò a disegnare con segno sempre identico, diagonale, il vuoto dei suoi neri pensieri. Il cassetto contenente li album fotografici della madre era ancora per terra. E li vi rimase per molto tempo. Tina prese con sé solo una foto incorniciata sulla mensola in legno vicino al caminetto in muratura: la mamma aveva in mano un mazzo di fiori, era estate, era bella, aveva un vestitino bianco purissimo, i suoi lunghi capelli intrecciati in una coroncina che le adornava il capo ed il sorriso più bello del mondo.

Accarezzava con una mano un cavallo, lo sfondo mancava perché era un primo piano.

Nella foga della partenza immediata, sette anni più tardi, fu l'unica foto che si ricordò di portare, l'unica, infondo, che aveva custodito nel suo pozzo, l'unica presente nella sua casa, l'unica per cui comprasse dei fiori. Non era mai stata al cimitero. Tina scoprì l'esistenza del cimitero quando varcò le soglie di quello di Udine, accompagnando in corteo le spoglie del nonno di un coetaneo. Inspiegabilmente piangeva a dirotto: non era suo nonno, non era un suo aprente, non l'aveva mai visto eppure piangeva e piangeva come se quel lutto fosse stato il suo. Infondo lo era.

Seduta sotto un albero, dimentica del pericolo, osservava attonita l'intorno.

Un temporale giungeva da Fagagna con la sua cavalleria oscura di nubi roboanti.

Non aveva più lacrime, non aveva più forze, ma non aveva nemmeno un senso profondo.

In lontananza una cascata, un fagiano, una lepre, una distesa di campi annacquati, le impronte dei cani da caccia, un picchio, il silenzio.

-”Puoi venire da me?” - Graziella si presentò alla sua porta in un battibaleno.

-”Ma che hai fatto! Il tuo viso! Che ti succede' hai pianto? Tina!” -

Ci volle un bel po' perchè tutta la verità uscisse dalle labbra dell'argentina. Il libro di Montale, gli incubi, la fiera, l'album fotografico, la zingara, il “pozzo del tesoro”, l'articolo di giornale, la foto dell'incidente, le associazioni mentali, i ricordi, il dolore, lo sgomento, la rabbia, l'angoscia, l'incredulità, la morte. La teiera sul fuoco fischiò e, dopo la quarta tazza di tisana Tina riuscì a ricomporsi. Era la prima volta che si sfogava così profondamente con una persona, era la prima volta che un estraneo si prendeva a cuore la sua situazione, era la prima volta che le sue pene ricevevano un abbraccio.

“Perché non vieni con me, stasera, a lezione di tango? Pensaci.”

Lezione di tango?” - rispose Tina guardandola dubbiosa. Le aveva appena parlato del suo calvario d'infanzia e lei proponeva il tango! Ballare, divertirsi!

“Si, il tango! Ti mancano le tue radici, no? Perché non partire dal tango! Il tango è la tua terra, le tue radici, è un legame con tua madre, magari ti porterà anche a tuo padre. Il tango è nelle tue vene e ti appartiene. Il tango è nei tuoi giorni, nei tuoi passi. E' un inizio. “

La scuola di ballo era in realtà una stanza al quarto piano di un edificio anonimo in una anonima via della periferia udinese. Aprivi un alto cancello in ferro battuto, seguivi un breve sentiero ghiaioso costeggiato da agrifogli, rododendri e felci e ti ritrovavi subito a tu per tu con un sobrio ingresso. Una lunga scala circolare saliva fino all'ultimo piano dove, appunto, un appartamento era stato adattato per la scuola di tango. Il gelo dello scialbo ingresso sfumava nel caldo conturbante del salottino arredato con due divani dall'improbabile rivestimento rosso fuoco. Cuscini in velluto, un porta riviste in vimini, tende candide. L'ultima rampa di scale prima del portentoso campanello della scuola di tango era punteggiato da un filare di fotografie di tangheri, stampe, poster di tutti i tipi, sempre inerenti al mondo rioplatanese. In sottofondo musica e, stranamente, profumo, indicavano la strada.

L'insegnante aveva litigato parecchio per poter appendere quelle punte di cultura nello spazio comune fino a vedersi obbligato a comprare l'intero complesso che intendeva utilizzare. Scorrevano le immagini di Piazzola, Gardel, Donato, Camorra, Pugliese, Morgado e quelle di perfetti sconosciuti arroventati in tanghi profondamente erotici. Colpivano i rossi dei rossetti, delle rose, delle atmosfere, i neri delle calze a rete, delle lucide decoltè, dei tubini dai profondi spacchi sulla coscia della donna, i bianchi delle perle, delle dentature, delle sigarette, dei tasti del pianoforte. Il parcalle. I cappelli, l'eleganza dei movimenti, la rotondità dei fianchi unita all'agilità della snellezza in evidenza nelle prese più acrobatiche.

Ogni gradino un pezzo di cultura che gli occhi assorbivano. Sotto ogni scatto una piccola didascalia, una data, un commento, un sospiro impresso su carta. L'insegnante ci teneva a trasmettere quel che lui chiamava “l'argentinità”, oltre al tango vero e proprio ed è per questo che la stanza adibita a ricevimento era arricchita da gigantografie di paesaggi argentini. Ogni domenica organizzava le milongue e la cena, rigorosamente cucinata da lui secondo le tradizionali ricette argentine. Era una novità sconvolgente per quel periodo. Pochi lo conoscevano ma il passaparola stava iniziando a dare dei buoni frutti. All'interno dell'appartamento poca mobilia, tante coppe, cornici, ritratti, caricature, poesie battute a macchina o testi di tanghi scritti a mano e appesi alle pareti come fossero fotografie, che pure c'erano sparse ovunque. Portacenere in vetro sul tavolino davanti ai sofà, luci soffuse, drappi e alcolici. Due stanze erano destinate al cambio dei ballerini. Il momento del cambio delle scarpe era quasi sacro: smettevi i panni di donna qualunque, timida, serva e uomo pedante, stanco, occupato, smettevi i problemi, smettevi d'essere madre o nonno e tonavi all'essenza di maschio e femmina. Donne e uomini si separavano in centro a un corridoio luminoso: un drappo in velluto porpora su cui vi era dipinta la figura maschile o femminile distingueva i due camerini. l ciarlare cessava quando la tenda veniva tirata. Accadeva una magia. L'insegnante aveva imposto il silenzio totale nel camerino. Nel silenzio una polvere di stelle cadeva sui capi chini dei tangheri intenti nella metamorfosi. Le spalle ricurve, le braccia che proteggevano il petto, incrociate in difesa cascavano, raddrizzando la schiena. Spuntavano i seni, alle chiome fluenti venivano tolte le briglie. Le scarpe da tanghero ben oliate di lucido brillante trasformavano un chiodo di ragazzetto, un nonnino con i reumatismi, un goffo operaio in portentosi stalloni di razza che avanzavano sul selciato con falcata elegante, sicura, eretta. Lo sguardo della passione negli occhi di uomo. Intanto le note del violino iniziavano a riempire la stanza mentre il pianoforte prendeva possesso della scena. Ballavano. Anche nella sala da ballo c'erano due gigantografie di coppie che ballavano tango, ma creavano figure meno elaborate, più intime, suadenti, in contatto. Sguardi struggenti e corpi in dialogo. Quando Tina giunse nell'ultima rampa di scale e si trovò immersa in questo bombardamento di immagini, profumi, armonie in lontananza si sentì frastornata. Non era felice. Graziella aveva ragione: stava ristabilendo un contatto con la sua terra. Lì nulla, nemmeno il soprammobile più insignificante, proveniva da altro mondo se non quello argentino. Invasione d'emozione. Saliva i gradini uno a uno soffermandosi con lo sguardo sugli scatti in bianco e nero. I suoi occhi fissarono le strette prese delle mani, l'abbraccio che lascia poco spazio, sentì il dominio. Vide anche l'eleganza ma qualcosa di sotterraneo, inspiegabile, la portò a soffermarsi sull'intimità che lei percepiva soffocante solo guardando quelle immagini.

La colpì una foto: due ballerini in un vicolo semi buio. Lei aveva la mano poderosamente stretta da lui. Erano così vicini: il solo guardarli produsse nello stomaco di Tina una contrazione di rifiuto. Lei dava le spalle al muro, non lo toccava con la pelle nuda della schiena ma sembrava in gabbia. Lui aveva una posizione di predominio, quasi prepotente, uno sguardo duro. Fra i due non vi erano distanze, non svolgevano passi contorti. Non c'era nemmeno abbandono: a Tina sembrava di leggere bisogno di difesa dall'uomo, fastidio nel volto della ballerina. Lui avanzava un passo verso di lei. Lei indietreggiava con la gamba destra, avendo il polso tenacemente bloccato dalla volontà di lui. Mancava l'aria e quel vicolo così buio da sembrare anche sporco raccontava il pericolo.

Quella foto sconvolse Tina ma subito la voce di Graziella, all'apice delle scale, la richiamò imponendole di sbrigarsi. La lezione stava per cominciare. Qualcosa d'inspiegabile ronzava e strisciava nelle viscere della donna: un'apprensione, un'ansia, una sottile paura. Si trovava sulla pista da ballo. Il suo ballerino sconosciuto la stringeva, lei tentava di ristabilire le distanze anche se queste si definivano in millimetri o centimetri quand'ecco che le potenti trombe da transatlantico di cui era fornito il suo istinto suonarono a tal punto che tutto intorno a lei cominciò a girare e girare e girare. Sulla sua fronte scesero copiose gocce di sudore, il respiro cominciò a mancarle tanto da sentirsi soffocare. Spazio, aveva bisogno di spazio. Ma non lo trovava. E l'uomo stringeva, non capiva, non voleva rispettare e più questi pensieri l'ossessionavano più la sua gola diventava incapace di recepire l'aria. Si agitava, cercava di urlare e più lo faceva più si sentiva morire, mancare. Il tanghero non molava la presa, era infastidito. Lei si toccava il collo, lui non le dava spazio. Più lui stirngeva più lei sentiva la necessità roboante di ristabilire le distanze e la protezione. Il suo corpo non voleva l'intimità con quell'uomo, non voleva essere toccato da un uomo. Non ebbe il tempo di chiedersi che cosa fosse andata a fare in quella scuola. In preda al terrore più acuto si accasciò fra le braccia dell'insegnante, svenendo per svariati momenti. Quando si riprese era a casa, nel suo letto. Di tutto il trambusto e lo spavento creato non aveva neanche un vago ricordo. Seduta accanto a lei Graziella e, appoggiato alla scrivania l'insegnante. Volti lividi la guardavano. “Tina!” - esclamò l'amica con gli occhi straripanti di preoccupazione -”Tina! Sei sveglia! Mi senti? Come stai?”

“Cos'è successo?”

“Non lo so.. un attacco di panico ... sei svenuta... poi ti sei ripresa, ma hai cominciato a piangere e piangere e non sapevamo più come calmarti, tremavi e piangevi. E sei svenuta di nuovo allora Roger mi ha aiutato a portarti a casa, ha chiamato il medico e.... Tina! Mi sono così spaventata! Come stai?”

Roger era l'insegnante di tango. Di quanto aveva raccontato l'amica, Tina aveva vaghi ricordi. Una stanchezza colossale le premeva sulla testa, quasi faticava a tenere gli occhi aperti. Non aveva più forze per combattere.

“Mi stringeva... - disse con una voce flebile - “Mi stringeva... io gli dicevo di no, che doveva rispettarmi... “ Faticava a parlare, pareva confusa

“ Non sai quanto si è dispiaciuto il Signor Del Bono!” la sovrastò Graziella - “Era sconvolto: ci ha prestato lui l'auto per portarti a casa!”

“Mi stringeva.... io gli dicevo di no, che doveva lasciarmi stare, non toccarmi...” - a quel punto l'insegnante comprese che non stava parlando del ballo e, garbatamente, allontanò Graziella con la scusa di una camomilla bella calda. Si sedette al capezzale della giovane, sempre rispettando una qual certa distanza, le prese una mano e le disse:

“Cosa successe, dopo?” - e Tina riprese a parlare senza un filo logico, confusa. Roger si rese conto del rischio di un nuovo attacco e la fermò, sfruttando l'arrivo della calda tisana che l' amica aveva velocemente preparato.

Mentre Tina beveva, i due la guardavano ognuno perso nei fili dei propri pensieri, uniti entrambi dalla consapevolezza che questa donna sciupata, scarna, dagli occhi arrossati aveva bisogno d'aiuto.

Quella notte Graziella rimase a dormire da lei, preoccupata e partecipe.

“Non immaginavo di farti tanto male proponendoti di venire con me alla lezione. Perdonami”

“Non è colpa tua, Graziella. Oggi è stata una giornata pesante. Grazie per essere qui con me.”

Si addormentarono così, vicine ed esauste, in un sonno senza sogni, profondo quanto gli abissi.

  I giorni seguenti volarono via roteando lontano come perle sfilate da una collana infranta.

Tina ringraziò a profusione l'amica per la vicinanza ma poi scelse di ritirarsi nella sua proverbiale solitudine, cercando una dimensione, un senso, un filo conduttore per tutte le emozioni e le scoperte di quei giorni. Aveva riordinato la stanza, riempiendo nuovamente il pozzo con tutti i suoi ricordi, infilandolo nuovamente sotto il letto: le mancavano le forze per tornare a guardarci dentro.

Sapeva che stava scappando ma la paura era più forte. Era rimasta così scioccata, spaventata, attonita davanti al suo mancamento nella scuola di tango che aveva finito per cercare protezione nella confortevole quotidianità di una casa da mantenere, vestiti da stirare, passeggiate in campagna, limitati contatti con il mondo.

Era una mattina soleggiata e calda, una di quelle mattine che ti fa scordare l'inverno imminente e quasi ti coccola con i suoi raggi che illuminano gli accesi rosati, ocra, muschio tutt'intorno.

Le Alpi erano così nitide che se allungavi una mano avevi la sensazione di poter rubare con un dito una crema di neve brillante, consistente come lo zucchero a velo.

Nei cestini delle donne traboccavano porcini, castagne, arance. I melograni venivano spaccati per far conserve deliziose. I bambini correvano schiamazzando con intorno al collo le sciarpe colorate sferruzzate dalle nonne. Talvolta il mondo si fermava e gli incroci diventavano foto ricordo mentali di attimi di serenità. Pittori agli angoli cercavano di bloccare il tempo con pennellate fuggenti, sfumature di poesia apparivano nei bianchi fogli di poetesse in procinto di partorire bambini al sapore di latte.

Tina guardava dalla finestra, coperta dal suo scialle arancione a lunghe frange intrecciate, una tazza di cioccolata fumante in mano, il desiderio di avere una macchina fotografica per poter immortalare quei fuggevoli dettagli di bellezza e spiritualità lungo un fossato che scorre costeggiando campi vividi di terra arata. I passeri sui davanzali, i colombi. Ogni tanto una poiana. La città lontana.

Il campanello suonò e comparve la zazzera riccia e corvina del giovane porta lettere.

“Signò! Signora! Venga che tengo un pacco pe' lei!” - nel flusso di emigranti nord e sud si erano fusi con l'est e l'ovest del mondo.

“Un pacco per me?” si domandò dubbiosa Tina “Speriamo solo che non sia nulla di grave! Non ho bisogno di altri scossoni!” .

Invece uno scossone era. E di quelli poderosi, segno che era finito il tempo della fuga.

 

“Cara Martina,

sono Giovanna, tua cugina. So che non vuoi più avere nulla a che fare con noi, dopo quello che è successo con zio... ma ti prego di ascoltare.

Non mi do pace da quando ho scoperto l'infamia che t'è toccata.

Qui in casa non si parla, ma io ti credo. Lo so, perché è successo anche a me.

Ma ho sempre taciuto sperando che smettesse, che si stancasse.

Non potrò mai perdonarmi: quando smise con me iniziò con te. Non lo sapevo, credevo si fosse calmato, che avesse messo la testa a posto, che l'età aveva fatto il suo corso e invece no! Se l'era presa con te ed io non l' ho mai capito fino a quando hai parlato!

Da allora, da quando te ne sei andata, non riesco più a trovare pace, non penso ad altro che alle mie colpe.

Mi vergogno profondamente per quanto non ho fatto e per ciò che ti sto per scrivere, ma ormai non posso più tacere. Perdonami se puoi!

Sei andata via da molti anni e non t'avrei disturbato se non avessi scoperto qualcosa di importante per te, che forse accenderà ancora di più la tua rabbia verso di noi o forse ti darà un po' di sostegno. Ho scoperto per caso questo fascio di lettere dall'Argentina.

Sono di tuo padre. Hanno molte date, la prima è del 1955. So che la ricorderai.

Ho chiesto a mia madre perché te le aveva nascoste e mi ha detto che l' aveva fatto solo per aiutarti a dimenticare. Secondo lei non era un bene, per te, mantenere un contatto con il passato: dovevi andare avanti e non pensarci più. La tua vita era qui, ora.

Ma io ti ho sentita piangere tante volte e non sono mai venuta a consolarti.

Ti chiedo perdono per me e per la mia famiglia. Credendo di farti del bene, t'abbiamo solo ferito. Mia madre voleva proteggerti dal dolore, non l'ha fatto per cattiveria ed io, io pensavo che forse volevi rimanere sola e che avresti superato la nostalgia.

Oltre alle lettere ho scoperto anche un pacco, sempre proveniente dall'Argentina. Perdonami se l'ho aperto, ero curiosa e non capivo: ci sono i diari di tua madre.

Ho capito che erano suoi solo leggendo. Perdonami se mi permetto di dirti che la scoprirai molto vicina quando leggerai la sua vita... Perdonami, ti prego, non sapevo che erano diari! E quando l' ho scoperto non ho potuto fare a meno di fermarmi perché ero sconcertata da quanto la sua vita fosse così simile in certi punti alla tua! Insieme ai diari di tua madre, c'erano altre lettere. Come potrai vedere sono tutte intitolate: “Al mio piccolo tesoro”, c'è un bacio stampato con il rossetto.

Sono tutte per te, tua mamma le scriveva ogni giorno della sua gravidanza: per te.

Ci sono molte fotografie, molte con tanti pensieri appuntati con l'inchiostro. Tuo papà ti ha spedito anche i libri preferiti di tua madre: considerati quegli anni non so come abbia fatto.

Tua madre voleva che non dimenticassi, voleva che anche da adulta i momenti d'infanzia ti fossero cari e reali come quando li hai vissuti da bambina. Voleva che ti ricordassi.

Ci sono fotografie di tua madre, di voi insieme. Tina mia: hai una foto della tua famiglia con te? Se penso a quanto dolore puoi aver provato mi sento così infame per non aver pensato, per non aver prestato orecchio, per non averti dato, per non essermi interessata, per aver guardato da un'altra parte anche quando urlavi aiuto con quei tuoi occhioni neri e profondamente ricolmi di tristezza. Potrai perdonarmi? Nel pacco che tuo padre mandò pochi mesi dopo che partisti dall'Argentina ho trovato anche una piccola bambolina con uno strano poncho rosso e nero e le scarpette da tango. Era una tua bambola?

Tina, Tina cara, ci penso solo ora: le tue bambole, avevi bambole in Argentina?

Qui non ne hai avute mai. Ci sono anche degli spartiti di tanghi per pianoforte. Chi li suonava? Tua mamma? Tuo papà? Quanto poco conosco del tuo mondo e sì che mi sei stata vicina, condividendo lo stesso tetto per quindici anni ed ora mi accorgo di quanto sconosciuta sei per me.

Cugina mia mi manchi tanto e spero che un giorno potremmo bere una tazza di mate insieme, per ricominciare meglio. Ho tenuto da parte una zucca svuotata: mi sono informata, non è così che si fa in Argentina?

Io non parlo più con lo zio, voglio che tu lo sappia.

Ha fatto del male a tante nipoti, ma solo tu hai avuto il coraggio... Spero che tu stia bene.

Ti lascio il mio nuovo indirizzo perché anche io ho lasciato la casa.

Se vorrai ti farò avere anche tutti i giornali di questi anni con le notizie sulla tua terra.

Ti chiedo ancora perdono, con sincerità

Tua affezionata

Giovanna

P.S.: Ho trovato anche una strana coperta con cuciti fotografie e lembi di stracci con parole tinte di rosso, in spagnolo. Sembra un coperta di dolore, un capo espiatorio. E' quella trattenuta dal nastro. L'ho trovata in una scatola di cartone. Te la mandò una donna, forse una tua zia, non lo so. Il mittente si chiamava Sanchez Rosaria.”

 

Sulle spalle il manto che la madre aveva confezionato, conficcando in ogni centimetro di stoffa libero gli urli della sua anima, gli insulti e il suo dolore, pesava, scaldava, indicava una strada.

Quella coepta rappresentava il muro di fuoco in cui la donna era passata, gli insulti, i ricordi, le difficoltà. Ad ogni scatto cucitole addosso era legato un ricordo. Ad ogni parola dipinta o creata era collegato un tratto di strada per dimenticare. I sorrisi consapevoli e profondi della madre erano, quindi, il risultato di questo prezioso lavoro di creatività e vita che l'aveva impegnata prima di diventare moglie e madre. Sul manto il disgusto, le disillusioni, le incertezze, le infamie.

Nelle foto gli inganni, i tradimenti, la speranza.

In mano Tina reggeva tremante una foto, cadutale in grembo aprendo un libro di poesie: dopo vent'anni rivedeva la sua famiglia.

Lei, piccola birbante dalle guancette paffute in braccio ad una madre radiosa d'amore e un padre dallo sguardo colmo di felicità, era il fulcro dell'immagine.

Erano a casa loro, in Buenos Aires. Dalla prospettiva in cui il fotografo aveva scattato la foto, pochi erano i dettagli che si intravedevano alle loro spalle ma lei comprese, individuando scorci di caminetto, che si trovavano in salotto. I suoi occhi si persero nell'abbraccio lontano dei suoi genitori e d'un tratto sentì quella calda sensazione di famiglia che le avvolgeva il cuore e parole d'amore cominciarono a tamponare il suo animo ferito. Spirava un vento curativo nel suo profondo, che a tempo debito avrebbe aiutato a fondere il grande dolore, con i ricordi, l'amore e la speranza.

Sul retro della fotografia una dedica: “Alla Mia piccola Martina: tuya es su vita/tuyo es su querer”.

Prese carta e penna e scrisse:

“Ti perdonerò. Dammi tempo. Grazie.

Tina”

Dopo di ché salì in camera, spalancò le finestre, dissotterrò il “pozzo del tesoro”, svuotando nuovamente il contenuto sulla sua coperta di lana: la trapunta divenne un tripudio di immagini fuse con le parole, nastri intrecciati con foglie secche, versi di tango, profumi di radici.

Vi adagiò anche il pacco che la cugina le aveva mandato.

Prese il cestino con i gomitoli, gli aghi, le forbici e le penne. Sorrise, d' un tratto, sentendo la madre così vicina da poterle dare una forma concreta nel suo cuore. A modo suo la stava aiutando.

Era una mattina soleggiata, calda, di quel caldo che aiuta nella cura delle ferite e dona speranza.