Dora Maar di Loretta Coloni |
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ritratto di Dora Maar , fotografia di Man Ray, 1936
fotomontaggio primi anni '30, fotografia di Dora Maar
"Gli anni ti tendono un agguato" ritratto di Nush fotografia di Dora Maar, 1932-34
Dora Maar nel suo atelier con il ritratto di Alice B.Tocklas, 1946 fotografia di Michel Sima |
Que
la patience et le silence/Me prennent les mains/Que la jalouisie/Laisse pendre
ses superbes griffes/L’absence prépare ses aiguilles/Pour m’attendre au
battement du jour/Elles m’éveillent/Le sang secoue ses ailes/Je parle.1 Che la pazienza e il silenzio/Mi prendano le mani/Che la gelosia/Lasci pendere i superbi artigli/L’assenza prepara i suoi aghi/Per attendermi allo scoccare del giorno/Loro mi destano/Il sangue scuote la sue ali/Io parlo. Dora
Maar: di lei rammentavo solamente un volto contorto dal dolore, intrappolato
dalle forti pennellate di Picasso, “La femme qui pleure”, uno dei tanti
ritratti eseguiti durante gli intensi anni della loro relazione. Tutti i testi
critici che accompagnavano le opere del “Maestro” la citavano
semplicemente come una delle sue tante amanti o come la nuova donna
“intelligente e sofisticata, intellettuale persino nella sensualità… dal
forte, nevrotico e isterico temperamento… sirena turbatrice della quiete di
Picasso.”2 Per
conoscere la vera Dora, la fotografa, la pittrice e la poetessa, ho dovuto
riavvolgere il nastro del tempo, tornare all’anno 1926, nella Parigi in cui,
dopo l’infanzia trascorsa a Buenos Aires, si stabilì la diciannovenne
Henriette Theodora Markovitch, figlia di un architetto croato e di una
francese. Lì iniziarono per lei i giorni dedicati agli studi artistici,
trascorsi fra lezioni di fotografia e incontri di pittura nello studio di Andrè
Lhote; ma già all’inizio degli anni trenta compì, stimolata dall’amico e
mentore Louis-Victor Emmanuel Sougez -portavoce in Francia della Nuova
Oggettività- la propria scelta: con il nome d’arte di Dora Maar, munita
dell’inseparabile Rolleiflex scelse la carriera professionale come
fotografa, condividendo lo studio con Pierre Kéfer e, per un breve periodo,
la camera oscura con Brassaï, con cui rimase a lungo in contatto. Si
occupò di foto pubblicitarie e di moda adattando, con ricercatezza e
fantasia, le innovazioni tecniche delle avanguardie: tagli prospettici e
deformazioni, doppie esposizioni e collages; realizzò anche ritratti, nature
morte e lavori su commissione per libri d’arte e per riviste erotiche, come
“Beauté et Sex Appeal”. Parallelamente, viaggiando tra Barcellona e
Londra portò avanti una personale ricerca indagando i paradossi di povertà e
ricchezza nelle metropoli minate dalla depressione, cogliendo scene di strada
con monelli e mendicanti e riprendendo angoli di città con quel gusto ironico
ed amaro per le situazioni insolite che avrebbe poi caratterizzato tutta la
produzione successiva. Erano
ancora anni di grande fermento: la Ville Lumiere attirava artisti,
intellettuali, ricche e disinibite ereditiere, collezionisti e mecenati; ci si
riuniva nei bistrot, si tirava tardi nelle osterie a discutere di arte e di
politica; chi aveva avuto un fortunato incontro con un mercante, offriva la
cena a quelli che ancora attendevano la stella del successo. L’amore e la
morte erano i due poli tra i quali orbitava quella variegata umanità: tra
vite spezzate dall’alcool, dall’oppio o dalla tubercolosi, le passioni
ardevano improvvise, e quando la sete di trasgressione
cedeva il posto alla gelosia, allora erano risse memorabili, sfide e
“scomuniche”. Dora
percorreva quel mondo col passo altero di chi sa di possedere, oltre ad una
“scandalosa” bellezza, la cultura e la raffinata curiosità intellettuale
legate all’impegno sociale, qualità che le avevano permesso di inserirsi
con facilità sia nell’élite artistica cittadina, che nei gruppi di
attivisti legati all’estrema sinistra. Vestiva in modo elegante, a volte
appariscente, amava indossare cappelli alla moda e si laccava le unghie di
rosso, di verde o di nero; indipendente ed anticonformista ebbe una relazione
con lo sceneggiatore Luis Chavance e in seguito, per un breve periodo, con
Georges Bataille, autore dello spregiudicato racconto “Histoire de l’oeil”;
nella cerchia surrealista divenne amica di Nusch Eluard, fragile bellezza che
aveva preso nel cuore del poeta il posto di Gala, e di Jaqueline Lamba,
affascinante moglie di Breton. In
quel periodo, oltre a ritrarre gli amici artisti, tra cui Tanguy, Barrault,
Crevel e Léonor Fini, creò immagini di forte impatto, ricercando il merveilleux
già invocato da Louis Aragon, quell’inatteso scoperto in luoghi normali
(come nei “ritrovati” scorci parigini di Eugène Atget)“: “Per ogni
persona c’è un’immagine da trovare che turberà l’intero universo”. In pochi anni divenne una fotografa famosa, le foto surrealiste e i reportage furono pubblicati ed esposti a Tenerife, Londra e Parigi. Nelle sue immagini figure enigmatiche galleggiano in ambienti desolati, come nella famosa “29 Rue d’Astorg” del 1936, in cui una statua dalla testa di forma fallica e dal corpo massiccio, rivelato con stridente contrasto da un abitino drappeggiato, campeggia davanti alla fuga d’archi di un chiostro. Per i suoi fotomontaggi spesso utilizzava i personaggi presi dalle sue foto di strada, che poi inseriva in architetture ribaltate da vertiginose rotazioni e deformate in camera oscura, in modo da creare atmosfere inquietanti, a metà strada tra le proiezioni dell’inconscio e le ambientazioni dei romanzi di Fantômas, implacabile criminale “eroe” dei Surrealisti. Con “Père Ubu”, divenuta un’icona del movimento, il feto di un animale, probabilmente un armadillo (Dora non volle mai svelare il mistero), raffigura il protagonista della feroce e grottesca parodia scritta da Alfred Jarry, ispirata alla figura del suo insegnante di fisica del liceo: “…un uomo nel quale convivevano codardia, immoralità e così via… e tutta la sua bardatura di cartone fa di lui il fratello, in tutto e per tutto, del più esteticamente orribile di tutti gli animali marini, il pidocchio di mare”. Sempre aderendo alla concezione dell’Informe cara a Bataille, realizzò due fotomontaggi in cui una stilizzata coppia di gambe divaricate determina lo scivolamento di categorie caro al movimento: il corpo mutante passa dalla levigata plasticità femminile al simbolismo fallico, dall’umano all’animale.
Cammino
da sola in un vasto paesaggio. È
bel tempo - Ma non c’è il sole. Non c’è l’ora. Da
tanto, non un amico, non un passante. Io cammino da sola. Io parlo da sola.3 Ripercorrendo
le tappe della vita di Dora Maar siamo così arrivati al gennaio del 1936:
lei, seduta sola ad un tavolo del Café des Deux-Magots, gioca infilando un
coltello tra le dita della mano guantata, ogni tanto un colpo sbagliato fa
comparire una goccia di sangue tra i ricami del guanto. Picasso, affascinato,
chiede a Paul Eluard di presentarli e Dora, così diversa dalla dolce Marie-Thérèse
Walter che aveva da poco dato al pittore una figlia, tiene testa al suo
sguardo catturandolo con la “mirada fuerte”, rispondendogli in spagnolo:
dopo l’incontro il guanto (per De Chirico “uno dei segni ermetici di una
nuova malinconia”) rimarrà a Picasso, simbolo e pegno del legame che stava
nascendo4. Con
lui e la bande à Picasso (Paul e Nusch Eluard, i Penrose, i coniugi
Zervos editori della rivista Cahiers d’Art, Man Ray con la compagna
Ady), trascorse a Mougins, piccolo villaggio sopra a Cannes, l’estate
del ’36 e quella successiva. Fu un periodo felice ed artisticamente fecondo,
nonostante le nubi di nazismo e fascismo stessero incombendo: l’esercito di
Hitler aveva invaso la Renania e in Spagna la guerra civile aveva portato ad
una dura reazione dei sostenitori di Franco. Per esprimere il suo orrore
contro “la brutalità e l’oscurantismo” che avanzavano in tutta Europa,
Picasso in un mese di lavoro portò a termine un dipinto di quasi otto metri
che intitolò Guernica, dal nome della città basca devastata dal
bombardamento di una squadriglia tedesca. Fu Dora, in quel periodo l’unica
accreditata a ritrarre il lavoro del pittore, a seguire ed immortalare
fotograficamente le fasi, o meglio le metamorfosi dell’opera, cogliendo
l’energia e la passione dell’artista al lavoro, le stesse che li spinsero
a creare, insieme, una serie di fotogrammi e stampe con la tecnica del cliché-verre,
trasferimento di un disegno su carta sensibile alla luce e del cliché-film,
immagine impressa a puntasecca su pellicola esposta. Dopo
Guernica Dora, spinta dall’amante, abbandonò la fotografia per dedicarsi
esclusivamente alla pittura; quando, dopo pochi anni, la guerra riversò tutto
il suo carico di orrore e di privazioni, le luci di studio servirono per
illuminare i dipinti di Picasso, mentre i fondali oscuravano le finestre
dell’atelier. Picasso ritrasse Dora instancabilmente, in vesti di volta in
volta mutevoli: dalla timida giovane, preda del minotauro, alla sensuale
donna-uccello, fino alle tormentate figure di femmina piangente. “Proprio
non riuscivo a ritrarla mentre rideva… Per anni l’ho dipinta con forme
contorte. Non era per sadismo, né perché la cosa mi desse particolare
soddisfazione. Obbedivo semplicemente a una profonda intuizione che mi si era
imposta. Alla realtà.” 5 Nel
1943 molti dei loro amici avevano lasciato Parigi e la passione di Picasso per
Dora si stava spegnendo: come era accaduto altre volte, una nuova giovane
artista, François Gilot, aveva calamitato l’interesse del pittore.
L’improvvisa morte dell’amica Nush Eluard nel 1946 andò ad aggiungersi al
già insostenibile carico di orgoglio ferito, tensioni e gelosie; Dora cominciò
a manifestare i sitomi di un grave esaurimento nervoso, venne internata in un
ospedale psichiatrico e sottoposta per tre settimane a trattamenti di
elettroshock, finché Jacques Lacan, su intercessione di Eluard, la trasferì
in una clinica privata e la prese in cura. Dopo due anni di analisi la donna
ritrovò l’equilibrio e riprese con grande dignità, nonostante
l’ingombrante ombra di Picasso, l’attività pittorica e le frequentazioni
mondane, soprattutto nei salotti di Lise Deharme e di Marie-Laure de Noailles:
“Tutti pensavano che mi sarei uccisa dopo l’abbandono di Picasso. Anche
lui se lo aspettava, e il motivo principale per non farlo fu privarlo della
soddisfazione”. Con
il passare del tempo il giovanile interesse per l’occultismo e il buddismo
si era convertito in una profonda, a volte eccessiva, misticità legata al
cattolicesimo; Lacan, “l’arbitro supremo del caso senza speranza”,
parlando con James Lord, giovane scrittore e collezionista in quel periodo
molto vicino a Dora, disse: “Bisognava darle stabilità, qualcosa su cui
cristallizzarsi. Si era arrivati alla scelta tra il confessionale e la camicia
di forza”6. Dalla fine degli anni ’50 la donna rifiutò
progressivamente i veleni e le ipocrisie della vita di società e si allontanò,
sola con la pittura e le sue poesie, celate come “un segreto di me stessa a
me stessa segreto”, vivendo tra Parigi e Ménerbes, nell’austera casa
donatale dal vecchio amante (che lui aveva acquisita barattandola con un
dipinto). Si
riaccostò alla fotografia ormai settantenne, utilizzando una Polaroid e
sperimentando con i materiali che aveva a disposizione, prendendo i vecchi
negativi e stampandoli con diversi formati ed inquadrature, grattandoli,
mettendoci sopra zucchero, sale, gambi di prezzemolo e chicchi di mais. Quando
morì, nel 1997, lasciò una cospicua collezione di tutti i piccoli disegni,
scatolette di fiammiferi, schegge di terracotta, sassi ed altri oggetti che
Picasso le aveva regalato, gelosamente custoditi insieme ai quadri che, come
ebbe a dire: “Sui muri di una galleria forse potrebbero valere solo mezzo
milione. Sui muri dell’amante di Picasso valgono un prezzo molto più alto,
il sovrapprezzo della storia”.
1
– Dora Maar, 1932 ca. 2
– “Picasso – opere dalla collezione Marina Picasso”, catalogo a cura
di Giovanni Carandente. 3 – Dora Maar, maggio 1946 4 – “Dora Maar senza Picasso”, Mary Ann Caws 5- Gilot e Lake, “Life with Picasso” 6 – “ Picasso e Dora”, James Lord.
pubblicato su Fotoit 11 - 12 2007 |