di Francesca Gallo
Nonostante la copertina, il libro fotografico di Franco Belsole (edito da Vanilla Edizioni) non è una raccolta di fotografia architettonica, lo sottolinea Matteo Cremonesi nel bel testo di introduzione.Il volume si intitola Habitat in un tempo e in un luogo qualunque e pertanto fa immediatamente riferimento a una forma di vita, gli esseri umani in questo caso, per i quali il contesto urbano è diventato l’habitat “naturale”.
Quindi Franco poi se vorrà ci spiegherà questa scelta un po’ spiazzante per l’immagine con cui il libro si presenta in prima battuta.
Conosco Franco Belsole e il suo lavoro da una decina d’anni, quando con molto piacere ho presentato una sua mostra da AOC F58, l’associazione operatori culturali situata in una piccola enclave di Via Flaminia verso Piazza del Popolo, al numero 58 appunto. E alla comune amicizia con Irene Ranzato dobbiamo anche questa seconda occasione di incrocio sul lavoro di Franco. Quella esposizione si intitolava I non luoghi e raccoglieva, mi pare, una parte delle opere confluite nel libro che presentiamo stasera. Stiamo quindi parlando di un progetto lungo, meditato, in un certo senso sedimentato. Come sedimentato è l’interesse di Belsole sulle città, città moderne – direi tutte non italiane, ma su questo Franco ci illuminerà – e a prima vista non identificabili. Stiamo parlando quindi di vedute lontane dai luoghi comuni visivi, tipici della tradizione vedutistica e migrati senza troppe cesure nell’immaginario turistico, praticamente fino ad oggi. I luoghi qualunque, appunto, come avverte il sottotitolo.
Belsole infatti predilige contesti della ipermodernità, potremmo dire, caratterizzati da costruzioni in vetro, cemento, acciaio, superfici specchianti e riflettenti, profili su cui la luce scivola, alla stregua del nostro sguardo. E in definitiva, scorrendo le fotografie riprodotte nel libro, tale contesto è indifferente anche a coloro che lo attraversano, gli abitanti a cui allude il titolo: uomini, donne e bambini, individui isolati o gruppi che si muovono su tale sfondo.
Non sono dei veri e propri ritratti, perché sebbene fortemente comunicativi, quei volti – così mi aveva raccontato Belsole – sono catturati attraverso il teleobiettivo. Una scelta tecnica che gli consente di operare indisturbato, cogliere visi e gesti senza entrare veramente nella sfera privata dei passanti e in qualche modo infastidirli. L’esito ricercato è quindi quello dell’anonimato, apparentemente l’uno vale l’altro, la ragazza dai bei capelli corvini vale quanto l’uomo impettito. Ma mi chiedo, e chiedo a Franco, nei tuoi “appostamenti” qualcuno da un giorno all’altro ritorna? Ti è capitato di fotografare più di una volta una stessa persona? Di chiederti perché passava di lì in quel momento? A cosa stava pensando? È una curiosità che nasce dallo sfogliare il libro, perché pur nella condizione di reciproca non conoscenza, i volti sono fortemente comunicativi.
Non mi pare ci siano anziani, almeno nella selezione confluita nel volume, e non so se questa sia una scelta: potrebbe essere un modo, ai miei occhi, per sottolineare la dimensione della mobilità, del movimento sia in senso fisico, sia anche dei moti interiori delle persone fotografate da Belsole. Esse sono inconsapevoli della sua attenzione, assorte nei propri pensieri e preoccupazioni, colte in momenti in cui sembrano sostanzialmente isolate dal contesto urbano e architettonico, così importante eppure sfuggente, non determinante come avverte il sottotitolo del volume. Anche quando qualcuno sembra scrutare l’orizzonte come se stesse aspettando di vedere comparire qualcosa o qualcuno, in realtà capiamo che sta facendo altro e forse semplicemente si scherma dalla troppa luce del luogo aperto. Un’area scoperta tra le costruzioni con una intensità luminosa che sembra coglierli impreparati.
Certo sono persone giovani, ma non per questo necessariamente belle, anzi talvolta i pensieri che le attraversano – le impegnano in quel momento – sembrano addirittura pesanti fardelli che quasi li schiacciano producendo espressioni corrucciate o stanche. Un effetto, questo, causato anche dalla forte illuminazione che predomina nella maggior parte dei dittici pubblicati, una luminosità prepotente nella quale Belsole li coglie talvolta perfino indifesi: è estate e, sebbene non mi pare che ci sia una luce zenitale, molti indossano occhiali da sole, altri hanno gli occhi socchiusi. Questa lettura, lo avrete capito, farebbe di Belsole un cacciatore: ma è davvero così? Franco sceglie con attenzione lo scatto? Oppure raccogli numerosissime immagini per selezionarle successivamente, operando più a freddo una scelta e pertanto con un metodo che ricorda quello del collezionista e del raccoglitore, per tornare alla metafora dell’habitat e dei comportamenti umani.
Nel libro, ogni ritratto è affiancato da un dettaglio architettonico, in modo da formare per l’appunto un dittico. Almeno questo è quanto viene raccolto nelle due sequenze più corpose che compongono il libro. Nel caso dell’architettura la luce mi pare più varia talvolta radente, studiata per mettere in evidenza la texture dei materiali, le forme costruite oppure la sfocatura dei riflessi. A tal proposito, Franco ama ricordare l’importanza nella fase di formazione dell’interesse per la scuola di Düsseldorf e per i coniugi Bernd e Hilla Becher. In quella medesima linea genealogica, tuttavia, il lavoro di Franco mi ha evocato soprattutto la serie della Tokyo Compressiondi Michael Wolf: anche in quel caso ritratti anonimi, diversi per contesto e messa a fuoco delle espressioni, ma anche essi interni all’estetica dell’uomo contemporaneo e del suo corpo a corpo con un habitat artificiale.
E arriviamo così a quello che forse è il cuore del libro fotografico, almeno lo è stato per me, una sequenza piuttosto centrale di cinque dittici in cui gli esseri umani sono presenti solo attraverso il loro riflesso su (oppure attraverso) una sfera di vetro opalescente, probabilmente posta al centro di uno slargo in un quartiere moderno di Berlino o di Parigi, di Londra o di New York. La superficie bagnata del vetro trasforma completamente l’immagine, come se Belsole avesse catturato sott’acqua l’apparizione di essere anfibi, giovani donne e bambini – direi – che hanno trovato un nuovo habitat, appena appena sottomarino, pervaso dalla tonalità dell’azzurro e del verde chiaro.
Nel libro le fotografie sono impaginate in sequenze, intervallate da alcune riflessioni del fotografo e, mi pare che gli insiemi che si creano siano sostanzialmente quattro: dei primi tre gruppi, costituiti da dittici, ho detto. Nella parte finale, Franco Belsole ha raccolto scatti isolati, magari di quei medesimi contesti architettonicipresenti nei dittici, in cui però i passanti sono in questo caso quasi assenti. Hall interne, corti, ponti sospesi, torri e facciate di uffici, moderni passages dove la luce arriva più blanda, le ombre si fanno profonde scolpendo nei fatti le forme delle costruzioni. In alcuni scatti, Belsole ha addirittura ingrandito talmente tanto un dettaglio, enfatizzandone la serialità, fino a renderlo una forma astratta che mi ha richiamato alla mente le sperimentazioni condotte da Aleksandr Rodčenko negli anni Venti, proprio a partire dall’architettura e da punti di osservazione incongrui rispetto alla tradizione fotografica che all’epoca, lo scrive anche Belsole nel libro, era ancorata saldamente alla registrazione naturalistica della realtà.
Mi piacerebbe che Franco spiegasse il senso di questa parte finale del volume, che sembra quasi un congedo, complice la coppia ripresa di spalle. Si tratta di una scelta narrativa consona alla forma libro, oppure corrisponde a una diversa pista di indagine, rispetto ai dittici? Quando è stata avviata e verso dove conduce?
Francesca Gallo